L’esperienza ci insegna come fare; la scienza ci spiega perché. Ma solo la seconda permette di innovare, anticipare e correggere, attraverso i suoi modelli verificabili
C’è oggi una tendenza, alimentata da movimenti culturalmente importanti come Slow Food, a rivendicare una pari dignità tra il sapere scientifico e quello esperienziale. Si tratta di una reazione comprensibile, e in molti casi necessaria, alla colonizzazione tecnica del mondo rurale e alla perdita delle competenze tradizionali. Il contadino che conosce la sua terra, che sa quando seminare osservando le foglie o l’umidità del suolo, viene giustamente valorizzato come custode di un sapere antico, radicato, concreto. Eppure, da questa giusta valorizzazione si scivola talvolta verso una semplificazione pericolosa: l’idea che il sapere esperienziale e quello scientifico siano interscambiabili, e che uno valga l’altro in ogni situazione.
Non è così. Il sapere del contadino è prezioso, ma è retrospettivo: funziona perché il mondo, fino a quel momento, ha funzionato in un certo modo. È un sapere costruito attraverso generazioni di osservazioni accumulate, che consente di agire con rapidità ed efficacia in contesti noti. Il contadino non ha bisogno di modelli teorici per sapere quando potare un albero: ha visto fare, ha fatto, ha imparato. Questo sapere è insostituibile nella gestione quotidiana del conosciuto.
Ma proprio perché si fonda sull’esperienza, questo tipo di conoscenza si arresta di fronte alla novità radicale. Quando arriva un parassita mai visto, una malattia sconosciuta, o cambia il regime delle piogge per effetto del riscaldamento globale, l’esperienza passata non basta più. Il contadino può solo osservare, tentare, sperimentare più o meno a caso. È in quel momento che il sapere scientifico mostra tutta la sua forza. Perché non si limita a registrare l’esperienza: la organizza in un modello astratto del mondo, sottoposto a verifica, capace di spiegare, prevedere e guidare l’azione anche là dove l’esperienza non è ancora arrivata.
La conoscenza scientifica è l’unica che consente di affrontare l’ignoto in modo sistematico. Di fronte a un nuovo patogeno che colpisce le colture o gli animali, non serve la saggezza del passato: serve la comprensione dei meccanismi biologici, delle dinamiche evolutive, della genetica e dell’ecologia dei patogeni. Serve la capacità di mettere alla prova ipotesi, di fare esperimenti controllati, di costruire modelli che anticipino scenari futuri. In questo senso, solo la scienza può guidarci nel cambiamento e nell’innovazione.
Abbiamo bisogno della scienza non solo quando dobbiamo affrontare l’ignoto, ma anche quando vogliamo capire e collegare — quando cerchiamo un quadro coerente che dia senso a ciò che altrimenti resterebbe una collezione disordinata di “saper fare”. Il sapere esperienziale, come quello del contadino, è spesso profondo e affidabile, ma resta frammentario: ogni gesto ha un senso nel suo contesto, ma non necessariamente si connette ad altri in una visione unitaria del mondo. La scienza, invece, costruisce connessioni, cerca regolarità, interroga le cause, distingue il caso dalla necessità.
Ed è proprio questo sforzo di collegare che rende la scienza insostituibile. Se rinunciamo a questo lavoro, se ci accontentiamo di mettere insieme frammenti senza mai interrogarci sul loro significato complessivo, rischiamo di costruire modelli di mondo sbagliati, incoerenti, spesso infondati. E più questi modelli si vestono di presunta “sapienza alternativa”, più diventano pericolosi. Perché un modello del mondo sbagliato non è solo inutile: è fuorviante. Può portarci a curare il male con rimedi inefficaci, a fraintendere le cause di una crisi ambientale, a reagire in modo errato a un’epidemia. Non è un errore neutro: è un errore con conseguenze.
Il sapere esperienziale ci insegna come fare; la scienza ci spiega perché. Ma solo il perché ci permette di innovare, di anticipare, di correggere. E solo la scienza, con i suoi modelli verificabili, può dirci se il mondo che crediamo di vedere è davvero quello che c’è.
E, soprattutto, solo la scienza ci dà gli strumenti per migliorare attivamente: per selezionare varietà più resistenti, per progettare strumenti più efficienti, per ridurre l’impatto ambientale delle pratiche agricole o per incrementare la produttività senza sacrificare la qualità. Dove l’esperienza si limita a perfezionare ciò che esiste, la scienza consente di costruire ciò che ancora non c’è. Ma non solo: la scienza, nel migliorare, è di gran lunga più efficiente. Non procede per tentativi ciechi, ma indirizza ogni sforzo sulla base di ipotesi fondate e di dati misurabili. Questo non le garantisce l’infallibilità, ma una straordinaria capacità di apprendere, correggersi, e progredire rapidamente. È per questo che non possiamo rinunciare né all’una né all’altra — ma nemmeno confonderle.