Chissà se Nadav Lapid, a Cannes con “Yes!”, parlerà degli ostaggi israeliani

Il festival cinematografico si apre tra commozione per Gaza, silenzi sugli ostaggi israeliani e film che intrecciano politica e memoria. Tra simbolismi e ritorni alle radici, domina un cinema diviso tra impegno e identità

Gaza. Gaza. E ancora Gaza. Non sembra esistere altra sofferenza al mondo. Juliette Binoche, presidente della giuria, commemora una fotografa che era stata appena accettata a Cannes, morta sul lavoro. Un demone ha spinto l’attrice a indossare per la cerimonia di apertura un completo con pantaloni, bustino, spalla nuda e velo bianco in testa, firmato Dior Haute Couture. L’effetto? Tra la madonna e il velo islamico. Troppe lacrime per Gaza, e sul Corriere della Sera invece di “ostaggi” sta scritto “ostacoli”. L’Ucraina e Zelensky hanno avuto il loro momento nel programma speciale, un po’ defilato, “Trois film pour l’Ukraine”. Robert De Niro, premio alla carriera consegnato da Leonardo DiCaprio, ha lamentato la democrazia americana in pericolo. Una parola per gli ostaggi israeliani non l’ha spesa nessuno. Potrebbe farlo Nadav Lapid, figlio dello scrittore Haim. Il suo film, alla “Quinzaine des cinéastes”, è intitolato “Yes!” e racconta un musicista incaricato di scrivere un nuovo inno nazionale israeliano, all’indomani del 7 ottobre. Potrebbe: ma il regista Nadav, che vive a Parigi, odia Netanyahu con tutte le sue forze, e purtroppo ha un debole per il cinema sperimentale.



Nella Francia profonda, dove ai bambini si dà il cubetto di zucchero intinto nel vino, è ambientato “Partir un jour”. Debutto di Amélie Bonnin, regista quarantenne femminista e di sinistra, fumettista pop. Se non lo sapete prima, è difficile capirlo dal film. Parigi viene appena nominata. Ci sono le vecchie canzoni nostalgiche, non troppo conosciute fuori dalla Francia. E le gare di motocross. E i ristoranti per camionisti, dove Cécile (la cantante e attrice Juliette Armanet) è cresciuta con i genitori. Sognando la cucina raffinata che ora vorrebbe per il suo ristorante appena aperto. Scopre di essere incinta. Papà ha un infarto. Riprende la strada di casa, con il gigantesco cane che ha chiamato Bocuse. Ritrova il figo biondo che la guardava appena, mentre lei si struggeva per lui. Ora sposato e padre, in provincia la vita va avanti. Si continua a servire la macedonia. La carne con patatine e maionese. Il pesce appena comprato dai pescatori, piuttosto orribile d’aspetto. Cécile riscopre le ricette di famiglia: la madre annuncia “oggi carbonara”, mentre le tagliatelle fresche che asciugano sullo stendibiancheria. Un leggero terrore si impadronisce dello spettatore che la pasta non la intende “scotta, e per contorno”, come suggeriva un libro di cucina svizzero trent’anni fa.



La Quinzaine des Cinéastes si è aperta con “Enzo”, il film scritto da Laurent Cantet (portato via da un cancro a 63 anni, nel febbraio 2024, aveva fatto il casting e i sopralluoghi). Lo ha girato per lui l’amico e collaboratore Robin Campillo, regista del magnifico “120 battiti al minuto”: raccontava i primi anni dell’Aids, i gruppi di supporto, le irruzioni ai congressi medici. Laurent Cantet era preoccupato per gli immigrati illegali al lavoro sui cantieri. Robin Campillo sceglie il romanzo di formazione del giovane Enzo, che vive con i più che benestanti genitori in una villa sulle colline dietro La Ciotat – dove i fratelli Lumière hanno inventato il cinema e girato i loro primi cortometraggi. Oggi vuol dire, per i ricchi, ville sulle colline con piscine meravigliose. I genitori di Enzo sono architetti o ingegneri, lo vorrebbero far studiare. Lui preferisce andare a fare il muratore, attratto anche dai maschi muscolosi che arrivano dall’Ucraina per costruire altre lussuose ville. Per rispettare l’attenzione al sociale di Laurent Cantet, senza togliere l’educazione sentimentale cara a Robin Campillo, ne esce un film sentito ma confuso.

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