C’è una svolta nella politica estera di Trump? Kyiv e non solo. Un articolo che si autodistruggerà

Caotico, opportunista, imprevedibile: la politica estera del presidente americano attuale non ha una vera dottrina. Eppure qualcosa sembra cambiare, dal ritorno della diplomazia classica all’irritazione crescente verso Putin

Questo articolo probabilmente si autodistruggerà nell’istante stesso in cui verrà stampato e in effetti non ci potrebbe essere momento peggiore di questo per ragionare intorno alla dottrina Trump in politica estera, perché mai come oggi è evidente che in politica estera non esiste una dottrina Trump e perché ogni scelta fatta in politica estera da Trump è frutto di un mix confuso di opportunismo, affarismo, narcisismo ed egocentrismo. Eppure, nelle ore che hanno preceduto il vertice di oggi a Istanbul tra Ucraina e Russia, qualcosa, nella traiettoria di Trump, sembra mutata. I cambiamenti di Trump di solito sono frutto non di un convincimento lineare dettato da un improvviso bagno di razionalità ma sono frutto della semplice e inconfessabile constatazione che le proprie strategie sono state un fallimento, come è stato in fondo sui dazi. Eppure, si diceva, qualcosa forse sta cambiando.

Due giorni fa, il Telegraph, quotidiano inglese conservatore, non tenero con il trumpismo, ha scritto che “per la prima volta da quando è tornato alla Casa Bianca, Trump sta prendendo decisioni di politica estera che non avrebbero suscitato orrore in altri presidenti”. La tesi del Telegraph è che “il punto di massima disgregazione di Trump sembra ormai essere passato”. E andare a Riad per discutere dell’Iran e del conflitto arabo-israeliano, ha scritto il quotidiano inglese, è una prassi che i presidenti americani adottano da decenni, anche se nessuno finora era mai andato a Riad a discutere di business anche per la propria famiglia. Allo stesso modo, rispetto al ritorno di una diplomazia non isterica, sul fronte di fuoco tra India e Pakistan, Trump “ha consentito ai suoi emissari di svolgere il ruolo tradizionale della superpotenza di risolutori di problemi internazionali”. Il Telegraph riconosce che “il fatto che l’America sia riuscita a gestire un’intera settimana di diplomazia tradizionale non rimedierà al vandalismo che ha distrutto le alleanze nei primi mesi di Trump”. Ma la buona notizia, nella roulette russa del trumpismo, è che l’èra in cui l’America si vantava di avere una politica estera estremamente destabilizzante potrebbe essere giunta a un punto di svolta.

E’ possibile che il Telegraph sia troppo ottimista e per esempio negoziare con l’Iran senza passare per Israele è tutto tranne che una strategia razionale di riordino del medio oriente. Ma che qualcosa nella politica estera di Trump stia cambiando, sapendo che questa affermazione si autodistruggerà probabilmente nel giro di poche ore, è un fatto che ha notato ieri un’altra testata non trumpiana come il Financial Times che in un articolo molto accurato sul tema del rapporto fra Trump e Kyiv ha ragionato attorno a un “silenzioso cambiamento di rotta dell’Amministrazione Trump sull’Ucraina”. Michael McFaul, ex ambasciatore statunitense in Russia, ha detto al Ft che si percepisce la frustrazione nelle sue comunicazioni e che forse sta capendo di aver rinunciato a troppo e di non aver ottenuto nulla in cambio”. Bill Taylor, ambasciatore statunitense in Ucraina dal 2006 al 2009, ha detto sempre al Ft che Trump ormai “riconosce che non ci si può fidare di lui, di Putin, e che non sta negoziando seriamente, e Trump sta giungendo alla conclusione che Putin non è amico degli Stati Uniti”.

La mancanza di compromessi da parte di Putin – scrive il Ft – ha portato gli Stati Uniti a considerarlo un ostacolo al cessate il fuoco tra Mosca e Kyiv. E per quanto a parole, negli ultimi cento giorni, Trump non abbia mai detto nulla di negativo nei confronti di Putin, il fatto c’è: le distanze fra Trump e Zelensky si sono ridotte, l’idea che l’Ucraina sia un ostacolo alla pace è un’idea meno presente nel dibattito Maga e anche grazie al supporto dato dall’Europa all’Ucraina nei momenti bui il semplice fatto che agli occhi di Trump il cerino della pace oggi sia in mano a Putin non è una condizione sufficiente per essere ottimisti sul futuro della guerra in Ucraina ma è una condizione necessaria per poter sperare che l’America dovendo scegliere da che parte stare al tavolo della pace capisca che è interesse americano non stare dalla parte di un macellaio sanguinario. Chissà.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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