La mostra di Venezia 2026, senza guida, e davanti a una scelta difficile: ripartire da zero o proseguire il suo lavoro. Una soluzione sarebbe affidare la direzione a Carolyn Christov-Bakargiev, figura autorevole e visionaria, capace di dare nuovo slancio all’evento nel rispetto del passato
La tragica improvvisa morte di Koyo Kouoh, curatrice della Biennale di Arti Visive che deve aprire nel maggio 2026 e della quale avrebbe dovuto rivelare tema e titolo a brevissimo, pone la fondazione veneziana in una situazione difficile e complicata. Ricominciare da zero o tentare di portare avanti il lavoro già fatto dalla curatrice del Cameroon? Non vorrei essere nei panni del presidente Buttafuoco. Ma se – facendo uno sforzo di fantasia – fossi in lui proporrei di affidarla a Carolyn Christov-Bakargiev, ex direttrice del Castello di Rivoli e curatrice di Documenta 13 a Kassel. Affiderei la Biennale a lei per vari motivi: per la sintonia che aveva per la curatrice scomparsa, perché se la merita e perché sta provando ad averla da non so quante edizioni. Come direttrice di museo non è stata brava e, come ho già scritto su questo giornale, la mostra sull’Arte Povera alla Bourse de Commerce di Parigi urlava vendetta al mondo.
Ma la Biennale di Venezia è tutta un’altra storia, e la sua Documenta fu fra le più interessanti fra le ultime edizioni (a parte qualche buffonata, come portarne una parte a Kabul per omaggiare Alighiero Boetti). Ecco, se farà la Biennale le suggerisco non di eliminare le sue amicizie, ma di evitare di teorizzarle. Noi curatori, in particolare a una certa età, abbiamo amici di lunga data e dovunque andiamo ce li portiamo dietro, non importa il tema della mostra. Se il nostro amico è Botero lo infiliamo anche in una mostra sull’anoressia. Carolyn Christov-Bakargiev non s’inventi teorie che giustifichino un certo nepotismo congenito del mondo dell’arte. Si merita la Biennale perché nel corso della sua carriera ha avuto visioni lungimiranti e idee importanti, a volte offuscate da un narcisismo patologico anche questo congenito e inevitabile della nostra professione. Un antidoto all’inutilità del mestiere.
Sarebbe assurdo chiedere a chi farà la Biennale di fare quello che aveva in testa Koyo Kouoh. Logico che chi ne prenda l’eredità rispetti il lavoro fatto e poi prosegua per la propria strada. La Kouoh, conoscendola, non apprezzerebbe una versione riveduta e corretta delle sue idee. Il miglior modo per onorare sia il lavoro che la memoria sarà per la Biennale accettare quanto accaduto e guardare avanti scegliendo qualcuno, la Bakargiev appunto, con esperienza, passione e sufficiente arroganza per condurre l’istituzione fuori dal tunnel.