La Casa Bianca punta a eliminare gli intermediari e facilitare la vendita diretta dei medicinali, minacciando misure “aggressive” per le case farmaceutiche che nei prossimi mesi non abbatteranno i costi per gli americani. Ma gli esperti dicono che così ci saranno più problemi di prima
Non si placa lo scontro fra Trump e il settore farmaceutico. In un ordine esecutivo firmato lunedì, il presidente degli Stati Uniti ha accusato nuovamente i produttori esteri di gonfiare i prezzi delle medicine a danno dei cittadini americani, mentre acconsentono invece alle richieste di prezzi più bassi in altri paesi. “Questo abuso della generosità degli americani, che meritano farmaci a basso costo alle stesse condizioni di altri paesi sviluppati, deve finire”, si legge nel documento. “Essendo i maggiori acquirenti di prodotti farmaceutici, gli americani dovrebbero ottenere le condizioni migliori”. Il presidente americano ha quindi promesso, ancora una volta, di voler attuare ogni misura possibile per spingere le case farmaceutiche a ridurre i loro prezzi negli Stati Uniti.
Una manciata di giorni dopo il sedicente “Liberation day”, Trump aveva dichiarato che presto avrebbe introdotto “importanti dazi sui prodotti farmaceutici importati”. Oggi, nel documento, la parola “dazio” non compare neanche una volta. Come ha spiegato su Truth, la sua strategia si basa su altre coordinate: eliminare gli intermediari e facilitare la vendita diretta dei farmaci. Qualora non si riuscisse ad abbattere i costi con questa procedura, il segretario della Salute americano Kennedy Jr. “proporrà un piano normativo per imporre il prezzo della nazione più favorita”.
Minacce a parte, il problema dei prezzi esiste. Sia Trump (durante il suo primo mandato) sia l’ex presidente Joe Biden hanno cercato di affrontarlo, specialmente per quanto riguarda il costo di alcuni farmaci salvavita come l’insulina. Uno studio commissionato dal dipartimento della Salute e dei Servizi umani degli Stati Uniti (Aspe) ha mostrato come, nel 2022, i prezzi dei farmaci negli Usa fossero quasi 2,78 volte superiori a quelli di altri paesi Ocse. Anche dopo aver considerato gli sconti e i rimborsi, i prezzi statunitensi dei farmaci di marca rimanevano oltre 3,22 volte più alti rispetto agli altri paesi. Al contrario, sostiene un altro report del think thank Rand Corporation, nel 2022 gli Stati Uniti hanno registrato prezzi inferiori per i farmaci generici senza marchio rispetto alla maggior parte dei paesi. Questa tipologia di medicinali, si legge nel documento, “rappresentava il 90 per cento del volume di farmaci con obbligo di ricetta negli Stati Uniti”, ma solamente l’8 per cento della spesa statunitense per farmaci con obbligo di ricetta (rispetto al 13 per cento negli altri paesi).
Le ragioni di questo squilibrio, però, non riguardano una disparità di trattamento delle case farmaceutiche verso gli americani, come sostenuto da Trump. Secondo un report della fondazione Commonwealth Fund, i consumatori statunitensi affrontano costi diretti più alti anche a causa di una copertura assicurativa meno estesa e di requisiti di compartecipazione più onerosi rispetto ad altri paesi. Nel dettaglio, la spesa pro capite per i farmaci è così elevata sia perché “gli Stati Uniti hanno una grande popolazione non assicurata, sia perché i requisiti di condivisione dei costi per coloro che hanno una copertura sono più onerosi rispetto ad altri paesi”. Tanti altri paesi, riescono quindi a pagare di meno perché negoziano direttamente con le aziende farmaceutiche, e offrire ai propri cittadini una copertura sanitaria universale conferisce loro un maggiore potere decisionale.
Per quanto minaccioso, in molti dubitano sull’efficacia di questo piano. “È improbabile che riusciremo a convincere le aziende farmaceutiche ad abbassare volontariamente i prezzi, e non riusciremo nemmeno a convincere gli altri paesi ad aumentarli volontariamente”, ha affermato Gerard Anderson, professore di politica e gestione sanitaria presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, secondo quanto riporta Cnbc.
A minare la fattibilità dell’ordine esecutivo c’è anche il fattore tempo. Secondo il piano, il segretario Kennedy Jr. dovrà fornire alle aziende farmaceutiche obiettivi di riduzione dei prezzi entro i prossimi 30 giorni, dando il via ai negoziati. Se non si compiranno “adeguati progressi” verso tali obiettivi entro sei mesi dalla firma dell’ordinanza, scatteranno varie misure “aggressive”. Eppure, secondo Anderson, il raggiungimento di un accorso sul prezzo tra governo e case farmaceutiche richiederà negoziazioni lunghe, dai sei mesi a un anno. Senza contare che l’imposizione di un prezzo o l’adozione di “azioni coercitive contro pratiche anticoncorrenziali”, come dichiarato dalla Casa Bianca, potrebbe innescare un’ondata di controversie legali.
“La nostra reazione è di grande equilibrio, stiamo alla finestra e vediamo se, come sta succedendo per i dazi, alla fine non ci saranno effetti”, ha detto dall’Italia il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani, a margine di un evento dedicato all’Industria del farmaco. Ma la strada per difendere la sicurezza dei cittadini sul fronte sanitario o dare nuovo impulso alla ricerca non passa “né per i dazi né per la devalorizzazione dei farmaci”. Queste misure, sostiene Cattani, sono l’ennesimo assist a Pechino. “L’effetto immediato è di rafforzare la Cina che sta galoppando su ricerca, innovazione e produzione con degli obiettivi molto chiari: arrivare a una leadership nel settore biotecnologico e farmaceutico”. E per un paese fortemente importatore come gli Stati Uniti, scelte di questo tipo “rischiano di innescare una carenza di farmaci che si traduce in problema clinico per i pazienti, nell’aumento dei costi del sistema sanitario e delle polizze a carico dei cittadini e, quindi, nella riduzione del consenso politico”.