Trump dice di aver fatto fare la pace a India e Pakistan. Ma è vero?

Il presidente degli Stati Uniti rivendica pubblicamente il ruolo americano nell’intesa fra New Delhi e Islamabad. Ma i vertici militari dei due paesi negano la mediazione di terzi

Donald Trump colpisce ancora. Sabato scorso, senza che prima le parti ne dessero l’annuncio ufficiale, ha ufficializzato sul suo social Truth il cessate il fuoco tra India e Pakistan: “Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti, sono lieto di annunciare che l’India e il Pakistan hanno concordato un CESSATE IL FUOCO COMPLETO E IMMEDIATO. Congratulazioni a entrambi i paesi per aver dato prova di buon senso e grande intelligenza”. Trump ha rivendicato pubblicamente un’intesa che, a quanto pare, era stata raggiunta attraverso canali diretti tra i vertici militari dei due paesi. Per la precisione, il direttore generale delle Operazioni militari del Pakistan, Kashif Abdullah, nella notte tra il 9 e il 10 maggio avrebbe avviato i contatti con la sua controparte indiana, il tenente generale Rajiv Ghai, per concordare la cessazione di tutte le azioni militari fra i due paesi. Anche il ministro degli Esteri indiano, Vikram Misri, ha smentito indirettamente il presidente americano, quando nella conferenza stampa dell’altro ieri ha detto che il cessate il fuoco è stato concordato direttamente tra i due paesi, negando la mediazione di terzi.

Secondo le ricostruzioni circolate sui media americani, Washington avrebbe ricevuto “informazioni credibili di intelligence” sul fatto che qualcosa di veramente tragico stava per accadere. A quel punto, il vicepresidente J. D. Vance avrebbe telefonato al premier indiano Narendra Modi, mentre il segretario di stato Marco Rubio telefonava a Islamabad: i due paesi sarebbero stati invitati a trovare una “soluzione onorevole” per entrambi che mettesse fine alle ostilità.

Secondo quanto riportato dall’Hindustan Times, la Casa Bianca avrebbe condizionato il Pakistan mettendo in dubbio il sostegno americano al pacchetto di salvataggio del Fondo monetario internazionale richiesto da Islamabad. Già domenica, il ministero degli Esteri pachistano faceva sapere di aver “accolto con favore il ruolo” del presidente Trump. E ieri il tycoon ha di nuovo rivendicato il ruolo americano nel negoziato, e ha affermato di aver fermato “l’imminente conflitto” tra due potenze nucleari promettendo a entrambi che avrebbe “fatto molti scambi commerciali” con loro.

Il cessate il fuoco è arrivato dopo una notte di combattimenti e un susseguirsi di notizie false e semi-vere sui media ufficiali e sui social media. Tra le poche notizie verificate, c’è il fatto che il Pakistan ha danneggiato, sia pur in modo non sostanziale, le basi di Udhampur, Bhuj, Pathankot e Bathinda in India e ammazzato un certo numero di civili e di militari bombardando villaggi e cittadine sulla linea provvisoria di confine. Gli indiani hanno invece colpito, provocando danni più o meno gravi a seconda del posto, una decina di postazioni militari pachistane: notizia confermata da immagini satellitari provenienti sia dall’esercito indiano che da fonti indipendenti e verificate. Il danno maggiore si sarebbe verificato alla base militare aerea di Nur Khan, a Rawalpindi, nel Punjab: un luogo fondamentale per l’Aeronautica militare pachistana, dove si sospetta si trovi anche del materiale nucleare. Islamabad ha fatto sapere di aver intercettato quasi tutti i missili, ma non è vero: i danni sono ingenti, come confermano le immagini satellitari e fonti qualificate di Lahore e di Islamabad che vivono nei pressi delle basi.

Le violazioni al cessate il fuoco che sono cominciate dopo appena due ore dall’inizio della tregua sarebbero da attribuirsi a “mujahideen” vicini all’esercito pachistano che si rifiutano di deporre le armi e di cui il governo di Islamabad non riconosce l’esistenza. Nel frattempo però, qualcosa è cambiato sin dall’inizio dell’Operazione Sindoor, perché l’India ha annunciato un cambiamento decisivo nella sua dottrina politico-militare: ogni futuro attacco terroristico sarà trattato da New Delhi come se fosse una dichiarazione di guerra. Resta da vedere se e per quanto tempo l’esercito di Islamabad, che prima dell’attacco terroristico di Pahalgam del 22 aprile scorso e della risposta indiana era ai minimi storici di popolarità, riuscirà a risolvere i suoi problemi interni mantenendo l’unità della popolazione contro quello che viene considerato il nemico comune. E, soprattutto, a tenere sotto controllo le organizzazioni terroristiche pericolosamente vicine e a lungo sostenute.

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