Il cantante torna sulla scena hip hop con un album perfettamente coerente al suo inconfondibile stile, venticinque anni dopo l’addio al genere. Tra collaborazioni eccellenti e rime ispirate, mostra di avere ancora pieno controllo del flow, anche se lascia il dubbio che un ritorno più solitario avrebbe valorizzato ancora di più la sua unicità
“Just like you did before”, proprio come facevi prima, dice una voce robotica all’attacco di “Canerandagio Pt.1”, l’album con cui Neffa torna a fare ciò che l’ha reso leggendario nella scena hip hop italiana: rappare, con il suo stile impareggiabile (“il guaglione è tornato sulla traccia” definisce lui il gesto, col suo slang), un quarto di secolo dopo che si congedò dal genere, per diventare cantante a tutto tondo (una traslazione del passaggio all’età adulta?), tra lo scandalo e la riprovazione dell’ambiente. Sarà quel che volete, ma è piuttosto emozionante sentirlo ripartire nei dintorni delle rime dei Sangue Misto con cui aveva concluso la propria esperienza rap, perché come lo sa fare la sua voce, l’eclettismo distaccato e flaneur del suo flow, nessuno l’ha mai pareggiato (forse Fibra), nessuno è stato mai capace come lui (e colui che gli somigliava di più, Tormento, la sorte lo trasformò nella controparte di un lungo dissing proprio con Neffa).
Adesso, dopo la rivelatrice apparizione a Sanremo nell’estemporanea crew montata da Shablo nella serata delle cover, per rifare la sua “Aspettando il Sole”, Neffa riattiva il proprio software compositivo e performativo da rapper e ricomincia, autoproducendosi, mettendo da parte le tentazioni pop e indossando i panni del vecchio Snif Snef che annuncia “Vieni a sentire che ho da dire con ‘ste rime”, proponendosi come il maestro tanto invocato, forte delle sue 57 primavere di cui una quarantina d’esperienza musicale, scherzosamente gradasso (“Sono senile / ma se serve / stile ancora te ne caccio”) e presentandosi in forma smagliante perché, d’altronde, quella cosa per lui è come andare in bicicletta, una volta che impari, due colpi di pedale e ne rinfreschi la regola. Neffa ha intenzionalmente tenuto breve l’album – 27 minuti in tutto – anticipando che seguirà presto la parte 2, forse prima ancora del concertone programmato per il 5 novembre al Forum di Assago (una specie di cerimonia di resurrezione, viene da pensare). Il disco è godibilissimo, la scrittura è fluida, i riflessi soul luccicano qua e là, i beat sono minimali e funzionali, le voci in primissimo piano. E poi c’è la questione dei featuring, su cui va aperta una discussione. Perché, non so voi, ma in questi tempi in cui un referendum non si nega a nessuno, promuoverne uno per la messa al bando dei featuring è una prospettiva che prima o poi andrà percorsa. Mica dal punto di vista qualitativo, visto che per il nuovo avvento di Neffa s’è mossa praticamente la nazionale del rap italiano: Fibra, Guè, Noyz Narcos, Franco 126, Izi, Frah Quintale, Gemitaiz, con la partecipazione di star indie come Joan Thiele e Miss Keta. Ma perché non riusciamo a capire perché uno con la personalità unica che ha Neffa, con la sua tecnica e, se ce lo passate, anche con la sua sicumera, abbia sentito il bisogno di aderire al canone secondo il quale più partecipazioni hai e meglio è (in questo caso almeno una in ciascun pezzo). A noi, quasi sempre, sembra vero il contrario. Badate: alcune performance di “Canerandagio Pt. 1”, nella fattispecie quelle di Izi, di Franchino e di Fibra, sono smaglianti.
Eppure, avremmo trovato più diretto e compatto ascoltare un rientro di Neffa, confermando la sua scelta di separazione dalla scena, di solitudine artistica alla quale a un certo punto (prematuro) della carriera ha deciso di votarsi. Il bello è che nell’intervista che ha rilasciato a “Rolling Stone” per lanciare il disco, Giovanni (suo vero nome) racconta come la fine dei Sangue Misto, la sigla che stava tracciando il sentiero italiano al rap, fu provocata proprio dal fatto che DJ Gruff, che s’occupava delle basi, reclamava spazio anche nelle parti rappate, fin lì coperte dai soli Neffa e Deda. A lui la cosa sembrò impraticabile, perché aveva troppe cose da dire, bisogno di barre per farlo e questo slancio lo portò addirittura a dichiarare chiusa l’esperienza. Adesso, anche se spesso si atteggia a consumato e scettico intrattenitore, viene da credere che cose da dire Neffa ne avrebbe abbastanza da non necessitare di quella sfilza di ospiti a cui appaltare le strofe. E che la sua unicità sia un valore da proteggere, non da diluire, lungo la sua parabola artistica, incluse le cadute e gli errori, dai tempi in cui suonava hardcore punk come batterista dei Negazione, fino al ritorno alle radici partenopee, con la sbandata per la canzone napoletana. Ma questi sono argomenti da discutere davanti a una birretta, adesso che arriva il caldo. La buona notizia è che Neffa è qua, e si è appena dimostrato in grado di maneggiare ancora i linguaggi con una sapienza che legittima la reputazione d’intoccabile che molti gli accordano. Anche se poi altri continueranno a considerarlo il traditore di una fede, o un cavallo di ritorno, o una promessa mai mantenuta. Lui, alla fine, non ha mai nascosto di sentirsi ciò che dice nel titolo dell’album: un cane randagio, ma dotato di fiuto sopraffino, interessato solo a seguire le tracce dei profumi che l’attraggono, quel giorno e in quel momento.