Il Sanremo degli architetti

La diciannovesima Mostra internazionale di Architettura di Venezia, curata da Carlo Ratti, archivia la smart city e abbraccia una visione inclusiva, tripartita e densissima. Dal vernacolare all’AI, dalle capanne ai funghi intelligenti, una kermesse che mette insieme tutto e tutti, con qualche assenza rumorosa

Ce n’è un po’ per tutti quest’anno alla 19esima Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, “Intelligens. Natural. Artificial. Collective”. Professore al Mit di Boston e al Politecnico di Milano, il curatore Carlo Ratti con un colpo di spugna ha cancellato tutta la discussione sulla smart city, così centrale nello scorso decennio, per sostituirla con un tema tripartito e dunque molto più inclusivo. Se nei primi due giorni di vernice si sono fatti sentire i professionisti dell’architettura scritta, nelle accademie e nei musei, dopo sono arrivati i professionisti e infine i profani. Alcuni trattano la Biennale come il Festival di Sanremo, dunque l’ultima edizione è sempre la peggiore. Altri come Joseph Grima trovano che la grande generosità della selezione curatoriale – oltre 700 progetti – sia indice di democrazia mentre ai tempi di Portoghesi gli invitati erano appena una trentina. Di certo l’Arsenale è bello pieno di installazioni, pannelli laterali, materiali e ogni tanto di qualche progetto anche affascinante come quello dei cinesi Vector. C’è la denuncia della crisi climatica permanente, del sud globale, c’è la verdura (vedi padiglione Belgio e Messico) e raramente c’è l’ironia come nel Carosello del gruppone italoamericano di John Lin e altri, un peep show rotante, o nel padiglione albanese che pure è semplice, chiaro e rigoroso grazie alla sua breve ma veridica storia urbanistica presentata da Anneke Abhelakh.



In generale la critica e il senso di colpa occidentale verso l’architettura, responsabile di estrazione di materiali, del colonialismo e di una professione a larga maggioranza maschile, giustifica la presenza di numerose installazioni alla Bernard Rudofsky ovvero antimoderne e vernacolari – si vedano ad esempio le decine di tende e capanne – che convivono tranquillamente con elementi hi-tech quali robot ed elaborazioni dell’AI, responsabile peraltro dei riassunti nei testi di sala. Corposa anche la sezione dei materiali innovativi come quella centrale curata dal Politecnico di Milano ovvero Ingrid Paoletti e altri, ma non solo: legno (Bjarke Ingels), pietra (Andre Jacques), stampanti 3-D, cemento in grado di creare energia elettrica come una batteria, pannelli da facciata con funghi, muffe e batteri in grado di abbassare la temperatura di un grado o più e così via – un Leroy Merlin 2.0 insomma, ma ai tempi era stata la stessa accusa rivolta a Fundamentals di Rem Koolhaas.

Fatalmente l’Arsenale si è riempito così di opere a dispetto dei Giardini dove il restauro del padiglione centrale ex Italia, oltre alla chiusura di Russia, Israele, Venezuela e Repubblica Ceca per motivi diversi, ha invece diradato brutalmente l’offerta che pure converge verso pratiche ormai condivise come il riciclo dei materiali e dell’architettura in generale, persino la cacca d’elefante. Questo spiega i Leoni d’oro alla Santa Sede (inevitabile nella settimana di Leone XIV) e alla Gran Bretagna autocritica verso il proprio passato coloniale, Gaza inclusa. Tutti i salmi finiscono in gloria insomma, la ricchezza della mostra e degli eventi restano disponibili fino alla fine di novembre con buona pace del sarcasmo pseudo marxista del Guardian che invoca più edilizia pubblica senza indicare strade concrete, mentre ci pensa il padiglione austriaco di Michael Obrist a farlo, forte della tradizione di welfare urbano di Vienna Rossa, unica alternativa alla speculazione edilizia internazionale e alla gentrification che coinvolge persino i Giardini visto il nuovo padiglione del Qatar in costruzione di fronte allo strambo padiglione Usa ancora pre-trumpiano ovvero in legno, dedicato allo spazio pubblico e alle minoranze.



In generale manca un po’ la storia, all’americana, storia che invece è presente alla Fondazione Prada sul Canal Grande dove “Diagrams” di Koolhaas/AMO presenta rari documenti di rappresentazione architettonica, sociale e paesaggistica, proprio lui che a proposito di smart city ai tempi della sua Biennale scrisse: “Come mai la città intelligente offre solo miglioramenti? Che ne è della possibilità di trasgredire? E anziché respingere l’intelligenza urbana accumulata nel corso dei secoli, dovremmo esplorare quale sia il rapporto tra ciò che oggi viene considerato intelligente e ciò che lo era nelle precedenti epoche di conoscenza”. Ciò che non manca invece è il mal di piedi prestabilito non solo dalle decine di mostre e padiglioni, ma soprattutto dalle centinaia di incontri fortuiti per calli e campielli con gli operatori del settore che vengono da mezzo mondo vabbè.

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