Per Gori, Guerini, Madia, Picierno, Quartapelle e Sensi la riforma del 2015 è “l’ultimo provvedimento organico sul lavoro” varato in Italia: “Il dibattito distrarrà l’attenzione dai veri problemi, oltre a creare divisioni in campo progressista e sindacale”
Giorgio Gori, Lorenzo Guerini, Marianna Madia, Pina Picierno, Lia Quartapelle e Filippo Sensi si smarcano dalla linea Schlein sui referendum della Cgil sul Jobs Act: dei quattro quesiti proposti, dicono in una lettera inviata a Repubblica, voteranno sì solo a quello sulle imprese appaltanti.
Finora, il nodo del Jobs act è stato gestito all’interno del partito senza particolari strappi, nonostante diversi malumori interni. A febbraio, durante la direzione nazionale del Partito Democratico, la segretaria Elly Schlein ha chiarito che la linea del partito è di votare a favore dei referendum contro il Jobs Act. Oggi invece l’ala riformista esce allo scoperto con una posizione netta: “Voteremo sì al referendum sulla cittadinanza e sì al quesito sulle imprese appaltanti. Ma non voteremo gli altri 3 quesiti, perché la condizione del lavoro in Italia passa dal futuro, non da una sterile resa dei conti con il passato”. All’appuntamento elettorale dell’8 e il 9 giugno, il primo partito di opposizione arriverà diviso.
Secondo i sei mittenti, una delle norme che il referendum intende abrogare (l’introduzione del contratto “a tutele crescenti”) “è già stata stravolta dalla Consulta e ritoccata dal governo Conte I”. Di conseguenza, la buona riuscita del referendum non riporterebbe lo scenario al testo originario dello Statuto dei lavoratori del 1970, “ma alla riforma Monti-Fornero”. Nel dettaglio, “si riaffaccerebbe la possibilità di reintegro in caso di “manifesta insussistenza” – assai rara – e, in compenso, l’indennizzo massimo in caso di licenziamento illegittimo passerebbe dalle attuali 36 mensilità a sole 24”.
I riformisti difendono la riforma del 2015: “Il Jobs Act voleva combattere il precariato e superare la frattura tra lavoratori “iper-garantiti” e lavoratori “periferici” su cui tendeva a scaricarsi tutta la flessibilità richiesta dal sistema produttivo”. Elementi che fanno della riforma del 2015 “l’ultimo provvedimento organico sul lavoro varato in Italia, per armonizzare la nostra disciplina a quella degli altri paesi Ue, ispirato alle migliori esperienze giuslavoristiche delle socialdemocrazie europee”.
La difesa del Jobs act passa anche per i numeri: licenziamenti non aumentati nell’ultimo decennio, crescita dei contratti a tempo indeterminato, nonostante le retribuzioni basse causate “dalla scarsa produttività di un tessuto economico troppo frammentato”. Per restituire la dignità ai lavoratori serve “mettere in pratica le politiche attive previste dal Jobs Act, e non realizzate”, dagli investimenti in formazione a un nuovo patto che tenga insieme innovazione, produttività, salari e una maggiore partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese: “Ciò che non serve è invece agitare un simulacro fuori dal tempo, con un dibattito che distrarrà l’attenzione dai veri problemi, oltre a creare divisioni in campo progressista e sindacale”.
La posizione è stata poi ribadita da Picierno al Corriere, secondo cui lo strumento referendario non è il più adatto a risolvere le questioni inerenti al rapporto tra produzione e lavoratori: “Per quanto riguarda questi aspetti sì, me lo sarei evitato”. Già in un’intervista al Foglio, la vicepresidente dell’Europarlamento aveva denunciato “la finalità esclusivamente ideologica” del referendum contro il Jobs act, rendendo sempre più concreto il rischio “di tornare a un vecchio e disorganico regime, con peggioramenti evidenti, come sulla Naspi”. Nel Pd “non c’è nessuna resa dei conti in corso – ha sottolineato oggi Picierno – a chi ci critica, dalla maggioranza, vorrei ricordare che l’ultima vera stagione di riforme fu concretizzata proprio dal Pd. Dal governo, finora, solo annunci”.