Il Palazzo dei Musei di Modena e l’ambizione di un nuovo modo di raccontare l’arte. Gli splendori di una dinastia italiana (e molto femminile). La Cultura è infrastruttura immateriale, spiega la direttrice-scrittrice Alessandra Necci
Serioso serioso, con l’alto berretto rosso e il profilo à la Federico di Montefeltro di Piero, è lui a fare gli onori nel nuovo arredamento della casa: Borso d’Este. Colui che fece grande la dinastia, nel 1452 ottenne il titolo di duca di Modena e Reggio dall’imperatore e poi quello di duca di Ferrara dal Papa. Feudatario dell’impero e anche della Chiesa, roba non da tutti, tanto da farsi realizzare – per sfarzo, senso del potere e amor di cultura – quella magnificenza di Bibbia, detta appunto di Borso d’Este, “la Gioconda dei manoscritti”, che oggi è un vanto assoluto del Palazzo dei Musei di Modena. Dopo Borso, sulla parete a destra del nuovo ingresso che sarà inaugurato tra pochi giorni ecco Isabella d’Este nel ritratto di Tiziano del Kunsthistorisches Museum. Una riproduzione, of course: le pareti di quella che finora era la prima sala della Galleria Estense, dedicata alle antichità, accoglieranno d’ora in poi gli ospiti con una serie di totem luminosi, una timeline e apparati informativi che raccontano la storia degli Estensi e delle loro collezioni. Con Isabella c’è Lucrezia Borgia, o meglio il Ritratto idealizzato di giovane come Flora di Bartolomeo Veneto, appunto un presunto ritratto di Lucrezia, che nella famiglia estense arrivò in virtù delle sue terze nozze con Alfonso I, e nella corte lascò un segno indelebile. Alfonso fu il mecenate dell’Ariosto dell’Orlando furioso, e accanto a lui ecco un’altra donna di potere e di garbo, Laura Martinozzi, nipote del cardinale Mazzarino, che alla corte di Francia si guadagnerà con le sorelle il soprannome di Mazarinettes. E ancora Maria Beatrice d’Este, perché la loro è una dinastia local-global e la figlia di Laura sposerà Giacomo II Stuart, sarà regina consorte e chiamata in Inghilterra “Mary of Modena”. Infine Francesco I, il gran committente di artisti d’alto rango che si fece ritrarre da Bernini in marmo e da Velazquez in tela. Perché l’arte è la miglior forma di diplomazia.
Si entrerà così, tra pochi giorni, nelle Gallerie Estensi del Palazzo dei Musei di Modena e l’aspirazione della direttrice, da poco più di un anno, Alessandra Necci, non è soltanto quella di un riallestimento ma di sperimentare le strade di una diversa “narrazione”. Parola forse abusata, nel nostro discorso pubblico; oppure, suggerisce lei, più che altro male interpretata: di sapere raccontare, tirare i fili che uniscono una storia, un territorio, un popolo c’è invece un gran bisogno.
Le Gallerie Estensi di Modena – museo eccellente, che tra un anno raddoppierà la sua dimensione, quando saranno terminati i lavori del nuovo piano – sono infatti un luogo particolare. Non una quadreria, non una pinacoteca civica nata per l’educazione del pubblico. Ma il frutto delle collezioni di una dinastia territoriale e dai mille rivoli e rapporti che è stata la più longeva d’Italia dopo i Savoia: un casato che ha impresso la sua orma nella storia e nei luoghi, nell’arte e nella cultura. Dopo l’Unità, quel patrimonio è divenuto Museo nazionale. Tesori vecchi e nuovi, come la rara collezione che sta per aggiungersi, la raccolta Guandalini-Raina Kabaivanska composta da 130 sculture soprattutto in terracotta: un dono di privati prezioso, e non infrequente per i nostri musei pubblici.
Oggi si rischia di ridurre tutto a ‘stories, ma per me il ‘racconto’ significa altro”. La storia fatta di persone, di biografie. Un filo che lega
Ha giustamente scritto qualche settimana fa sul Corriere della Sera Vincenzo Trione, il riferimento era all’Egizio di Torino, che in Europa un riallestimento museale si fa ogni decennio: in Italia invece abbiamo una dannosa staticità, ci sono musei che sono fermi nella loro forma – che è poi comunicazione – da decenni. Alessandra Necci, però, ricorda che il museo che dirige è stato risistemato e ripensato in alcune parti già negli scorsi anni. Ma quello che ha in mente non è un maquillage. Perché per lei al centro di tutto c’è la possibilità di raccontare e far raccontare. Scrittrice, avvocato, professoressa di storia dell’economia alla Luiss, rubrichista del Messaggero con storie tutte di donne, Cavaliere al merito della Repubblica, Chevalier des arts et des lettres de la République Française e insignita della Légion d’honneur, ha un curriculum atipico fra i direttori dei musei nazionali, non viene dalla conservazione dei Beni culturali, non è una curatrice, ha invece scritto biografie (dalle care Isabella e Lucrezia a Maria Antonietta, al suo amato Napoleone, a Talleyrand e Fouché) e ha una passione particolare (fin da bambina, dice) per la famiglia d’Este. Si era candidata per questo museo e luogo dell’anima, non per altro. E allora, ecco il museo che si racconta. Eppure: non siamo asfissiati dai racconti, dalle “narrazioni”, le chiediamo? “Al contrario, siamo in una fase storica che rischia l’indistinto, e quello che serve non è lo storytelling, che in fin dei conti significa la parcellizzazione, le pillole, i post su Instagram. La riduzione del mondo a ‘stories’. Un trionfo individualista. Invece per me, che sono vissuta nei libri, racconto significa altro. Il filo della mia esistenza è stato la scrittura, la biografia. La storia è fatta di persone, dalle persone. Credo che il privilegio del biografo sia quello di poter ‘dare voce’, di ‘ridare voce’. La storia non è sempre vero che la scrivono i vincitori, la scrive chi ‘prende la parola’. Per questo mi piace raccontare attraverso le persone”. E attraverso le donne. “La storia vive spesso di cliché femminili: le brioche di Maria Antonietta, la fake news dei veleni di Lucrezia Borgia; di qui l’idea di valorizzare le donne estensi, legandole al tema identitario del territorio. Senza dimenticare l’antesignana Matilde di Canossa”.
Torniamo al palazzo di Modena. “Quando sono arrivata, ho trovato un lavoro di riorganizzazione, di interventi, di ripensamento già ottimamente avviato da Martina Bagnoli, che ha guidato il Polo Estense – che, non va dimenticato, comprendeva anche la Pinacoteca nazionale di Ferrara, recentemente scorporata e inserita nei Musei Nazionali di Ferrara, di cui ho l’interim – dal tempo della riforma di Franceschini. Io mi sto dedicando agli step successivi, a ciò che manca. Non solo secondo me, ma a detta del nostro personale e dei visitatori”. Per tanto tempo, in Italia, l’idea di museo è stata quella di una scaffalatura un po’ polverosa per la conservazione di materiali preziosi, ma inerti. Luogo scarsamente accessibile e per addetti ai lavori. I musei non erano strutturati, se non in minima parte, per la fruizione del pubblico. Poi con la riforma si è cominciato a pensare a un’offerta culturale complessiva, all’esperienza dei visitatori, alla cosiddetta (e da molti deprecata) “valorizzazione”. Ed è cambiato anche il ruolo dei direttori. “Credo che oggi siano fondamentali poliedricità, duttilità, competenze diverse. Ho una formazione anche giuridica e non guasta; dirigere un grande museo non è un lavoro settoriale. Altro ingrediente indispensabile è il lavoro d’equipe: alle Gallerie ho trovato altissima competenza e dedizione. Viviamo in un cantiere continuo e le metafore del work in progress, dell’agorà mi sembrano adeguate a quello che è un museo, che deve essere inclusivo, al tempo stesso aprirsi all’esterno e dialogare con gli attori del territorio. Senza mai dimenticare che al centro di tutto ci sono le collezioni”.
In corso i lavori per il nuovo piano espositivo e i restauri alla Reggia di Sassuolo. Competenze e i collaboratori indispensabili per fare un museo
Ma non tutti sono uguali, per storia e per destinazione. I Musei Estensi hanno la particolarità di essere multiformi e diffusi. Ne fa parte ad esempio il Palazzo Ducale di Sassuolo, un gioiello unico di palazzo barocco nel nord Italia, era una tappa obbligata del Grand Tour. La facciata meridionale è stata appena restaurata e lo sarà anche la Peschiera (“questo territorio è intessuto di vie d’acqua, le strade antiche di Modena portano nomi di canali, è un altro aspetto che va valorizzato”), il parco tornerà allo splendore originario. C’è poi la preziosissima Biblioteca Estense Universitaria, la cui digitalizzazione nel 2020 (145 mila opere antiche) ha rappresentato un’impresa di portata mondiale. In più, è arrivato lo scorso anno, l’incarico di occuparsi degli spazi dell’ex Monastero di San Pietro a Modena, che i monaci benedettini hanno lasciato allo Stato e che l’allora ministro Sangiuliano ha indicato per la creazione di un museo del libro. Un bel labirinto. “Non tutte le formule sono adeguate a qualsiasi situazione. Questi sono musei di matrice dinastica, vanno rispettati e valorizzati in tale chiave. Credo all’importanza dei luoghi in grado di tenere insieme storie, aspetti, periodi. Gli Estensi sono il trait-d’union di un territorio e una parte della storia italiana”. La funzione dei musei, altra questione su cui un direttore deve riflettere. “Un paese come il nostro, in cui troppe volte il ‘particulare’ di Guicciardini ha prevalso sull’interesse generale, deve saper invece ragionare in termini di progetto comune e di visione. Sono indispensabili le infrastrutture materiali, come le ferroviere e le strade, e le infrastrutture immateriali, fra cui la cultura, la lingua, la scuola. Il mio lavoro è occuparmi di quella che è una infrastruttura sia materiale sia immateriale, una bussola senza la quale la società, la comunità e i suoi territori non possono esistere. Mi piace la definizione di museo data dall’ICOM, ma sono legata soprattutto al ‘patrimonio culturale e storico”’della Costituzione”. Anche la sua idea di valorizzare le donne che hanno fatto parte del casato d’Este nasce da qui? “A quel tempo per una donna lo strumento per emergere – certo, quelle di cui parliamo erano delle privilegiate – era la cultura. Il Rinascimento, la corte, è una ‘civiltà della conversazione’ e delle lettere, del bello e dell’arte come mezzo di relazione e di potere. Non si possono capire le opere esposte qui, ad esempio la splendida collezione di strumenti musicali, se non si conosce l’amore per la musica che ha contraddistinto gli Este. E in questo le donne sono protagoniste: il ‘Concerto delle dame’ è stata la prima forma di ensemble completamente femminile ed è nata alla corte estense. Valorizzare questo patrimonio è anche realizzare un presidio sul territorio”. E’ riuscita a trasmettere questa idea? In fondo Modena è un crocevia appartato, è una capitale del food, è la Motor Valley, ma non è una prima scelta per i flussi turistici. “Se la proposta è chiara, se il museo esce da sé per costruire rapporti con altre istituzioni, con l’università e la scuola, se c’è dialogo e ascolto, se si tessono relazioni anche internazionali, la risposta è forte. Non si tratta di una questione solo museografica, è come se si risvegliasse l’anima”.
Da Matilde di Canossa a Lucrezia Borgia alla Bibbia di Borso d’Este. Preziose raccolte raccontano arte e luoghi. Il soft power del Rinascimento
C’è anche un tema più generale di cui vale la pena parlare con Alessandra Necci, direttore in un certo senso atipico. Nel nostro paese ma anche in altri, pensiamo alla Germania e alla Francia, stiamo vivendo una fase culturale, politica e sociale in cui ritrovare il filo di una narrazione che tenga insieme pezzi di società e un sentimento di appartenenza nazionale, una comunità, sta tornando importante. Ma allo stesso tempo i rischi dei vecchi nazionalismi sono dietro l’angolo. Le istituzioni di cultura hanno un compito importante, che va molto al di là del successo del “bigliettificio”, del turismo massificato che, tra l’altro, oggi è spesso avvertito come un problema. “Sì c’è bisogno di una progettualità, di una visione. Ma non nel senso del sovranismo, del nazionalismo. Bensì di unire, tenere insieme, valorizzare luoghi vivi e vitali, e figure che abbiano un significato alto per tutti. Storia e memoria creano identità e servono a costruire il futuro”. Che è un po’ il Leitmotiv dell’attuale governo “sovranista”, che tiene molto all’idea nazionale, anche nell’uso dei nomi: il Piano Mattei, il Piano Olivetti per la cultura. “Sono contenta che si torni a pensare in termini di progetto paese e che i diversi piani siano intitolati a personaggi con un ruolo importante nello sviluppo dell’Italia. Del resto, sono figlia di Lorenzo Necci. Certo, occorre chiedersi quale posto vogliamo occupare nel mondo, nel Mediterraneo, quali rapporti costruire. Abbiamo il dovere di onorare le grandi personalità (tutte, però, non solo alcune): il modo giusto è rendere la loro memoria un canale attraverso cui passi una ‘infrastruttura’ per l’oggi”.
In arrivo due mostre. su Matilde di Canossa, Isabella d’Este. Lucrezia Borgia; la seconda sulle donne legate a Modena. Saranno rassegne diffuse
Torniamo qui, in questo grande palazzo che ha a sua volta una storia significativa. Era nato per essere il Grande Albergo dei Poveri, quando a metà Settecento i principi illuminati affrontarono le prime riforme sociali; solo dopo l’Unità divenne sede dei Musei Estensi. Oggi accoglie perciò tesori diversi, come l’importante Lapidario, la Biblioteca Estense Universitaria. Ora il cantiere principale riguarda l’apertura di un secondo piano espositivo, completamente nuovo, negli spazi dell’ex Ospedale Estense, un ’intervento da 9,6 milioni finalizzato all’ampliamento delle collezioni e della Biblioteca d’Arte, e inoltre spazi didattici e funzionali e laboratori e servizi multimediali. Far procedere di pari passo “infrastruttura” e “racconto” è il compito e l’ambizione di Alessandra Necci. “Così stiamo progettando due mostre sulle donne di Casa d’Este: la prima su Matilde di Canossa, Isabella d’Este. Lucrezia Borgia; la seconda sulle donne legate a Modena, fra cui Laura Martinozzi e altre del Sei e Settecento”. E saranno rassegne diffuse. La visione strategica è importante, anche se poi non bisogna perdere di vista il dettaglio: “Multiplex et multiformis”, come dice Yourcenar nelle Memorie di Adriano, le piace ripetere. Perché il tema narrativo degli Estensi è anche il tema della gestione del potere, di cui è simbolo per eccellenza la Bibbia di Borso d’Este, oggi custodita in una blindatissima cassaforte. “Un potere culturale che oggi chiamiamo soft power, ma che è arte, mecenatismo, collezionismo, dialogo, relazioni, diplomazia culturale. Credo che il lavoro dei nostri musei sia in linea con quanto stabilisce la Convenzione di Faro sul legame del patrimonio culturale con i diritti umani e la democrazia, sul diritto al (oltre che del) patrimonio culturale. Se da una parte la cultura è il collante immateriale delle civiltà, dall’altra, come diceva Gramsci, è necessaria alla costruzione dell’io”.