Quando i versi si fondano sull’essere umano in quanto tale, il suo orizzonte è ben più importante di ogni cosa ritenuta utile. Ma l’avvicinamento alla verità è destinato ad arrestarsi al di qua di un invalicabile confine, come un muro “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”
“Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile”, dichiarò Eugenio Montale nel 1975, mentre riceveva il premio Nobel. Era trascorso mezzo secolo dalla pubblicazione della sua prima raccolta, Ossi di seppia, di cui ricorrono in questo periodo i cento anni, un volume – oggi se ne trova qualche copia di esorbitante valore nelle nostre librerie antiquarie – stampato a Torino dall’editore Piero Gobetti nel 1925. “Caro Montale, le sue poesie mi piacciono. Purtroppo però l’esperienza di altri versi mi dice che per un volume di eccezione e di gusto come il suo c’è in Italia uno scarso pubblico”, aveva scritto l’editore vincolando il progetto a un certo numero di prenotazioni per garantire le vendite. Quello degli esordi fu un libro che l’autore giudicò “spaventosamente smilzo”, raccomandando allo stampatore di utilizzare “carta un po’ grossa” e “spazieggiare fino al possibile, tanto non arriva alle cento pagine neanche a largheggiare”. In questa, più che nella seconda edizione, realizzata poco più tardi con alcuni ampliamenti, si deve cercare l’immagine più autentica del primo Montale, riflessa in un volume che – scrive Giorgio Zampa – dovette apparire “scabroso, ostico, a tratti oscuro” per quel “linguaggio insolito, marezzato di termini liguri”, quella “novità, in alcuni casi sconcertante, del lessico”.
“Parto sempre dal vero, non so inventare nulla”, osservò Montale nel 1961; di qui l’espressività che il Sansone avrebbe definito “comune, immediatamente rispondente alle cose”, saldamente legata all’immagine concreta che acquista ora una “dicibilità poetica”: “E’ questo – notò infatti Luigi Blasucci – il dono della poesia montaliana all’uomo novecentesco: il riscatto del suo quotidiano oggettuale, considerato poeticamente irredimibile”. Ma è al contempo una poesia che, proprio attraverso un’icastica adesione al reale nei suoi dettagli, si indirizza a ciò che è essenziale: nel 1951, rispondendo a una domanda circa la relazione tra i suoi versi e gli avvenimenti bellici da poco occorsi, Montale osservò: “L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio”.
La condizione umana “in sé considerata” diviene meta fondamentale di una tensione poetica volta a spingersi verso la profondità delle cose, quasi nel tentativo di afferrare “la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe”, inoltrarsi nei “silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto”, per giungere finalmente “nel mezzo di una verità”. Proprio alle soglie di questo limite estremo, forse, si colloca la dolente consapevolezza esplicitata in Domanda senza risposta: “Non ho avuto purtroppo che la parola, / qualche cosa che approssima ma non tocca”. L’avvicinamento a una verità intuita che la parola intraprende è destinato ad arrestarsi al di qua di un invalicabile confine, come un muro “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Nota ancora il Sansone che Montale “avverte la sproporzione tra quello che noi sentiamo dentro di noi e la possibilità della sua espressione”, come sembra documentare uno dei versi più celebri: “codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Il vuoto incolmabile che ne rimane (“pochi – riferì Montale – sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto”) è descritto in un’intervista nella quale il poeta accennò a “un inadattamento, un maladjustment psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche”. E’ la condizione dell’uomo che egli descrive in questi Ossi di Seppia con versi sovente improntati alla negazione della speranza, ma al contempo con l’incancellabile, flagrante attesa di chi si accorge che – come leggiamo in un verso scritto anch’esso cento anni fa – “tutte le immagini portano scritto: / ‘più in là’”. Ecco allora che l’ironica ammissione circa l’inutilità della poesia apre il campo, sul versante diametralmente opposto, alla scoperta del suo impareggiabile valore: essa non ha utilità perché il suo orizzonte – ben più importante di ogni cosa utile – è l’umanità stessa, l’essere umano in quanto tale.