Un italiano perfettamente padroneggiato, un leggero tremolio delle palpebre dietro gli occhiali sottili, il profilo a becco, ma una evidente padronanza del mezzo, delle parole, delle pause. La prima impressione sulla Loggia non è quella che conta, però conta
“Non so se posso bene spiegarmi nella vostra… nostra lingua italiana. Se mi sbaglio mi corrigerete! E così mi presento a voi tutti, per confessare la nostra fede comune, la nostra speranza, la nostra fiducia nella Madre di Cristo e della Chiesa, e anche per incominciare di nuovo su questa strada della storia e della Chiesa, con l’aiuto di Dio e con l’aiuto degli uomini”.
L’esordio di Giovanni Paolo II sulla Loggia delle Benedizioni fu come un meteorite che esplodeva imprevedibile nel cielo già notturno di Roma, iniziava un pontificato in technicolor che per venticinque anni avrebbe sovvertito e piegato alla sua necessità di predicazione e di testimonianza l’intero sistema dei media planetari. Una rottura dei protocolli sacri e profani che Karol Wojtyla, “chiamato da un paese lontano”, non ebbe alcun bisogno di studiare, tanto era potente e veritativa la sua comunicazione. Finì in lungo tramonto praticamente in diretta televisiva il suo regno, e una dissolvenza pallida e leggera fece apparire sulla Loggia Benedetto XVI, il professore. E la sua timidezza, la sua voce sottile, le parole scritturali esatte scavate in una memoria sapiente (“un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”) generarono un contraccolpo, una commozione profonda.
L’esordio sotto l’occhio infallibile delle telecamere, e quello ondivago e fallace di milioni di spettatori, non è certo un criterio per giudicare o vaticinare la cifra comunicativa di un pontificato. Ma da quando la televisione è a colori, e i media digitali hanno soppiantato le parole e il senso del tempo, la prima impressione sulla Loggia non è quella che conta, però conta. L’apparizione, poche ore fa, sulla Loggia di San Pietro di Papa Leone XIV – chi se lo aspettava, un nome simile? Tra impossibili continuità bergogliane e irreali ritorni all’epoca dei Pii, un nome da Rerum Novarum – ha avuto e mostrato un impatto diverso. “La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. La pace sia con voi!”. Un italiano perfettamente padroneggiato, da viaggiatore e diplomatico consumato. Un leggero tremolio delle palpebre dietro gli occhiali sottili, il profilo a becco; ma una evidente padronanza del mezzo, delle parole, delle pause. Dei sorrisi non particolarmente coinvolgenti, non “in favore di pubblico” o di telecamera. L’esordio di Papa Francesco era stato dirompente, fuori schema e di un’umanità capace di conquistare: “Fratelli e sorelle, buonasera!”. Il Papa che sono “andati a prenderlo quasi alla fine del mondo… ma siamo qui… Vi ringrazio dell’accoglienza”. E soprattutto quel “vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica”.
Non è difficile dire che l’esordio di Robert Francis Prevost, cardinale di Chicago, sia apparso meno empatico, o commovente, rispetto ai suoi predecessori dell’epoca televisiva. Un uomo di concetti, che ben conosce l’occhio planetario che gli sta di fronte, non lo domina da comunicatore consumato ma nemmeno lo teme. Un approccio che potremmo definire utilitarista, pragmatico, che si rivolge a una Chiesa – e al mondo, la parola più ripetuta in assoluto è “pace” – e a un popolo cristiano che dovrà innanzitutto imparare a capire le sue parole e seguirlo, più che emozionarsi. Non sarà facile. Un Papa professionista nell’uso dei media ancora lo Spirito Santo non ce lo aveva donato.