Pupi Avati Unchained. Un vulcano di idee, oltre il grande schermo

Il regista premiato con il David alla carriera ha un sogno: Meloni, Schlein, Giorgetti, insieme intorno a un tavolo per una Yalta del cinema italiano. La dittatura dell’Impegno, le sale che chiudono. Intervista

Qualcuno li chiama i “Dèvid” di Donatello, all’americana, per dargli un tono da Oscar. Ma neanche l’Academy riuscirebbe a mettere insieme Pupi Avati, Sean Baker, Ornella Muti, Timothée Chalamet e Berlinguer, pure se nell’avatar di Elio Germano (tifavamo per il David “miglior acconciatura” al vecchio leader del Pci, un grande riscatto postumo). E’ senz’altro storico questo “David alla carriera” per Pupi Avati: 55 film, 86 anni, molta grinta negli occhi, sempre preso da qualche nuovo progetto (ma come fa?). “Questo premio mi dà molta energia”, mi dice con la statuetta ancora fresca tra le mani. “Mi fa capire che forse è crollato qualcosa. Vent’anni fa qualcuno avrebbe storto il naso, oggi no”. Oggi tutti in piedi ad applaudire. Standing ovation. Nessun dubbio. Pupi Avati era infatti quel regista non di sinistra, non impegnato, non proprio amato dalla critica, non molto premiato, poco invitato ai Festival, molto snobbato ai David. “Tra le persone che odiavo di più al mondo c’era Piera Detassis (presidente dei David), perché da quando è morto Gian Luigi Rondi, di David non me ne hanno dato neanche uno. Ma Detassis mi ha telefonato per darmi questo premio alla carriera e io mi sono subito innamorato di lei. Questo per dirti il mio livello di servilismo. Le persone che mi piacciono sono quelle a cui piaccio io. Il mio mestiere mi costringe a essere fatto così, devi sedurre, convincere, promuovere in continuazione ciò che fai. Questo è un lavoro fatto di relazioni, in cui la politica conta sempre e in cui per un bel po’ ha contato anche l’ideologia. Ma è tutto finito, ogni regista cerca il suo modo per sopravvivere”.

Nel gran discorrere di egemonie culturali e “cinema di sinistra”, Pupi Avati si gode il meritato riscatto. “Lo vivo come un piccolo crollo del muro di Berlino. Il segno di un’apertura che c’è ovviamente già da tempo, ma è comunque un simbolo. Il superamento di quell’alone di sospetto che circondava un regista come me, distante dalla sinistra”. E che succede quando sei “distante dalla sinistra”? “Che diventi di destra”, dice. “Mi ricordo tutte le interviste e i dibattiti che iniziavano sempre con ‘premesso che io sono di sinistra’, come per mettersi al sicuro, blindare la cosa che si stava per dire, qualunque fosse. Oggi questo posizionamento non garantisce più nulla, puoi essere un coglione di sinistra e un coglione di destra” (peraltro, si sa, in genere sono due).

Pupi Avati ha un sogno, anzi due. Il primo è un incontro tra Meloni, Schlein e Giorgetti, sotto la sua benedizione, sua di Pupi Avati, che sancisca la fine delle ostilità ideologiche. Una Yalta del cinema italiano col presidente del Consiglio, la leader dell’opposizione e il ministro dell’Economia “seduti intorno a un tavolo per risolvere i problemi del cinema, che sono i problemi di un settore industriale in crisi”, dice Avati, “non le paturnie ideologiche della destra, della sinistra”.

“Basterebbe anche solo un incontro di mezz’ora, perché prima di tutto andrebbe fatta una cosa”. Che cosa? “Un’Agenzia del cinema italiano, sul modello francese” (è il secondo sogno). “Un’Agenzia che alleggerisca il ministero della Cultura, che altrimenti non ce la fa, è ingolfato, costretto com’è a tenere insieme tutto, gli scavi di Pompei, i musei, l’opera lirica, impossibile. Il cinema è un mondo a parte. Per un po’ è cultura, ma per il settanta per cento è intrattenimento, commercio, affari, ha bisogno di uno spazio di manovra elastico. Non può stare dentro un ministero gigantesco come quello della Cultura. E’ un’idea che aveva avuto anche Ronchey, ai tempi di Amato e Ciampi”.

Viene sempre però qui il dubbio che si sopravvaluti la politica. Quanti convegni, struggimenti, peana sul cinema italiano in crisi in cui la colpa è sempre dello stato, del mercato, di Netflix, dei blockbuster, del pubblico che non capisce, della distribuzione, delle sale che chiudono e mai, neanche una volta, dei film, perché da quelli si parte. I film non dipendono certo da Meloni, Schlein, Giorgetti. “Certo, è così, ma ora siamo a picco, bisogna rimettere in piedi tutto, la chiave per ripartire è quella di un’Agenzia che per prima cosa semplifica le regole del gioco: poche, chiare, utili, che aiutano il cinema italiano a uscire dalla palude in cui è finito”.

“Per esempio andrebbero ripensate le commissioni di esperti che valutano i film”, prosegue. “Prima le commissioni ascoltavano il progetto raccontato dal regista e dal produttore, poi hanno iniziato a leggere copioni, piani finanziari, ma è difficile capire cosa hai tra le mani”, dice. “Poi ci sono numeri assurdi, centinaia di progetti da esaminare, da leggere con attenzione, un’impresa improbabile. Dovresti leggere quattrocento copioni per due lire di compenso. Andrebbe riproposto l’ascolto, andrebbe riproposto il premio di qualità assegnato dalla commissione e quello a tutte le maestranze. Soprattutto andrebbe incoraggiato e premiato il ‘basso costo’. Una corsia preferenziale per i film al di sotto dei cinque o dei tre milioni. Ci devono essere commissioni tecniche, non di intellettuali d’area”. Pupi Avati è un vulcano di idee. Forse al tavolo con Meloni, Schlein, Giorgetti, dovrebbe starci anche lui.

“Se Schlein e Meloni si mettessero d’accordo per salvare e rilanciare il cinema è probabile che si opporrebbero in tanti”. E perché? “Perché cose del genere fanno morire la polarizzazione, fanno cadere le barriere. Se si trova anche solo un argomento in cui si è tutti uniti, come per esempio il cinema italiano oggi che è arrivato ai titoli di coda, non va bene. Ci sono professioni che vivono di belligeranza: opinionisti, ospiti di talk-show, commentatori, editorialisti. Nel mondo reale si parla con tutti, senza chiedersi cosa votano, ma nel mondo delle idee, nel dibattito pubblico, pare impossibile”. Nel mondo reale Pupi Avati ha scoperto che suo direttore della fotografia vota per il Pd, per esempio. “Sì, l’ho scoperto per caso due anni fa. Lavora con me dalla fine degli anni Settanta e non lo sapevo, non mi ero mai chiesto cosa votasse. Se uno è liberale, come sono io, parla con tutti. La persona cui sono stato più vicino negli ultimi anni è stato Paolo Taviani, comunista, come tutti sanno, che per me ha preso il posto di Fellini che invece era inclassificabile politicamente. Tra i miei migliori amici ci sono Gianni Amelio, Tornatore, Marco Tullio Giordana, tutte persone che vengono dalla cultura di sinistra, ma con cui oggi condividiamo quasi tutto, perché il problema è il futuro e ancora prima il presente del cinema italiano”.

Secondo Pupi Avati bisogna prima di tutto convincere la destra a uscire dal pregiudizio, dall’idea che il cinema sia “una cosa di sinistra”. Anche perché il cinema non porta voti, non porta consenso, forse i voti non li hai mai portati, di sicuro non li porta oggi. “La destra dovrebbe avere più modestia, capire come funziona, prima di giudicarlo. Non si può continuare a ragionare sulle appartenenze, perché è saltato tutto, sono rimasti solo slogan, cliché”.

Però, un momento: non è che ci siamo inventati tutto. La storia del “solito piagnisteo della destra” è un’altra favoletta che si racconta oggi. “No, no, per carità, l’egemonia della sinistra c’era eccome. Eravamo un paese spaccato in due: la Dc governava, il Pci che non poteva governare amministrava la cultura. Tutta la cultura. Tranne la televisione, che era nelle mani della Dc, e poi nessuno vedeva la tv come ‘cultura’. Fino agli anni Settanta, l’arte, la cultura, anche l’università, direi soprattutto l’università, erano orientate così” (sull’università avrei qualche dubbio siano così cambiate le cose, ma ne parliamo un’altra volta). “Quando diciamo che il cinema era di sinistra, parliamo soprattutto dell’Anac (Associazione nazionale autori cinematografici) che era nelle mani di gente del Pci o vicina al Pci o nella galassia della sinistra”. L’Anac era nata come associazione di categoria “apolitica” nel Dopoguerra. Solo che in Italia non esistono cose, entità, associazioni che siano “apolitiche”. Negli anni Cinquanta è nemica acerrima della Dc, poi quando la Dc molla la presa sul cinema, appassionandosi alla Rai, diventa un feudo del Pci. Il resto lo fa il ‘68. “L’Anac di Citto Maselli era un presidio del cinema italiano. Oggi però sono iscritto pure io all’Anac, e anche questo ti dà la misura di come siano cambiate le cose”.

Negli anni Settanta (e anche un po’ prima, e anche un po’ dopo) la dittatura dell’Impegno non lasciava scampo. “Quando non si desumeva un’appartenenza chiara dal film che avevi fatto, allora eri giudicato con qualche sospetto. Figure come Goffredo Fofi stabilivano attestati, patentini, tasso di impegno, realismo, militanza. Io non ho mai avuto una recensione da Moravia su L’Espresso. Claudio G. Fava mi chiamava il Truffaut dell’Italietta. Ho avuto poi il grande svantaggio di piacere a Rondi, che era cattolico, democristiano. Se piacevi a Rondi ti arrivavano le stroncature da tutti gli altri, Kezich, Cosulich, Morandini. Allora misi in atto una strategia”. Quale? “Invitai Kezich personalmente a vedere il mio film, ‘Impiegati’, io e lui da soli. Era imbarazzato. Alla fine del film cominciò a elogiarmi. Così si creò una pattuglia, tra cui Tornabuoni, Reggiani, Cosulich, che veniva a vedere i miei film in anteprima. Da qui è iniziato un periodo meno ostile”. Ma il problema restava. “Non fare il cinema d’autore era una mancanza grave, frequentare i generi non ne parliamo neanche. Il problema era l’assenza di impegno. Il fatto che io o altri non usassimo il cinema per condannare qualcosa”. E infatti il cinema politico degli anni Settanta è invecchiato male o malissimo.

“Erano film a tesi. I grandi traghettatori come Scola, che vedevano più in là, erano pochi. I modesti, tanti, facevano i film per rivendicare la loro appartenenza, per dare conferme al Partito, alla critica militante. Scola invece ha fatto ‘La terrazza’, dove c’era già tutto l’amichettismo di oggi”. Nel cinema italiano, nella sua storia, c’è tutta l’Italia, e un bel pezzo d’Italia era comunista, come prima un bel pezzo d’Italia era stato fascista. “Il cinema italiano nelle sue infrastrutture è un’invenzione del fascismo, Cinecittà, il Centro sperimentale, cose senza le quali non avremmo avuto il cinema italiano nel Dopoguerra. Il cinema come mezzo di comunicazione è merito di Luigi Freddi, persona geniale, incaricata da Mussolini di rimettere in piedi il cinema che negli anni Venti era distrutto. Ma poi il cinema italiano come lo conosciamo in tutto il mondo nasce con ‘Roma città aperta’, ‘Paisà’, rinasce con la Resistenza com’era giusto e naturale che fosse… Da qui viene fuori poi anche una polarizzazione pretestuosa per restare identitari, da una parte e dall’altra, che incredibilmente ci si tira dietro anche oggi”.

E qui un paradosso, anche. Perché la destra, così attenta alla valorizzazione del Made in Italy, non può perdersi per strada il cinema che del Made in Italy fu il traino. “Secondo me hanno solo paura di muoversi in un territorio che conoscono poco, forse ci sono poche competenze a livello cinematografico, perché storicamente è stato così, e questo crea magari un complesso di inferiorità, diffidenza”. Esiste una destra riconoscibile nella letteratura, nella filosofia, ecc. Ma nel cinema è più complicato. La destra si appassiona di più alla Rai, alla fiction. “Perché il cinema spaventa, è un oggetto misterioso, difficile da controllare, anzitutto perché non si può lottizzare con le nomine, i consiglieri, il Cda, quella della sinistra sul cinema era una vera egemonia culturale, non una lottizzazione… Un’influenza nel campo delle idee, delle battaglie, degli scopi che i film dovevano raggiungere; e poi il cinema in Italia è dei registi, degli autori, mentre la Rai è dei funzionari, nasce già come un pezzo della politica. Ma il cinema va considerato come una delle attività più importanti, non si sono mai visti tanti film come oggi, non può essere un feudo della sinistra, è assurdo”.

“Semmai”, prosegue, “le due fazioni di oggi si dividono tra chi difende le piattaforme e chi vuole difendere la sala, quantomeno l’esistenza della sala. La sala purtroppo è diventata anacronistica. Tra i primi difensori della sala c’era Rondi, trent’anni fa, che però si faceva mandare i Vhs dei film in anteprima per vederseli a casa. I critici che selezionano i film per i Festival si fanno mandare i link. L’uscita in sala è un pretesto per accedere al tax-credit, altrimenti non te lo danno. Ma non si è capito perché, in difesa di che. La sala è fondamentale, anche per me. Ma va riprogettata, ripensata. Sarà per forza di cosa un’esperienza elitaria, per pochi, motivati, appassionati. Come quelli che amano sentire il fruscio del vinile quando ascoltano un disco di Armstrong. Come me”.

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