Paillettes e palline con Arbasino

Colloquio con Giosetta Fioroni attorno al suo rapporto con l’abito (indimenticato quello dell’incontro con Goffredo Parise) e il costume. Praticato come forma d’arte, ma anche terapeutica

“Già dagli anni Cinquanta, quando frequentavo l’Accademia di Belle Arti di Roma iscritta al corso di scenografia, iniziai a disegnare bozzetti dei costumi per rappresentazioni teatrali come “Il Cid” di Pierre Corneille o Les Fourberies de Scapin di Molière, che conservo ancora oggi nell’archivio della Fondazione”, dice Giosetta Fioroni. Siamo con lei a Roma, nel suo storico studio nel cuore di Trastevere. La Fondazione Goffredo Parise e Giosetta Fioroni, presieduta da Davide Servadei e di cui l’artista è presidente onoraria, è “nata nel 2018 dalla forte volontà che ho sentito di tutelare la personalità intellettuale ed artistica del mio compagno di vita e allo stesso tempo di unire i nostri percorsi lavorativi in un sodalizio virtuoso all’insegna dell’organicità e della valorizzazione”. Figlia di Mario Fioroni, scultore, e di Francesca Barbanti, pittrice e marionettista, scrive nella monografia che le dedicò qualche anno fa Germano Celant, pubblicata da Skira, Fioroni è nata la vigilia di Natale del 1932. Non è stata solo pittrice. La sua è un’affascinante storia di mondi, di popoli e di civiltà, contenuti in un corpus di opere (disegni, bozzetti, sculture e pitture) dove c’è un confronto continuo tra la società dei costumi e la fiaba, l’industria culturale e i giochi dell’infanzia, un ‘vero’ che è sempre ‘rappresentazione’, uno spettacolo con cui stringere un rapporto affettuoso.

“I colori, le forme, la matita e le forbici sono sempre stati una mia passione, forse anche per una certa aderenza con quello che fu il mestiere di mia madre, ma la prima grande e indimenticabile esperienza fu per me quella della messa in scena della “Carmen” al Teatro Comunale di Bologna nel 1967, con Alberto Arbasino alla regia, Vittorio Gregotti alla scenografia, Roland Barthes come suggeritore e io, appunto, ai costumi, una pièce passata alla storia anche per il flop che ci fu lì per lì: andò in scena tra fischi e contestazioni. Ricordo una scala d’argento in scena, palline da ping pong, reti metalliche, grandi paillettes dal diametro di dieci centimetri”, aggiunge. “I costumi che immaginai allora erano realizzati, oltre che con quelle palline, con polistirolo, gomma piuma, rasi e plastica. Forme e colori alludevano con simbologie semplificate ai temi della pittura di allora. I pois, i segni, le strisce, gli ornamenti e i trucchi, tutto era stilizzato. Fu un evento importante, che diversi anni dopo venne ricordato da Luisa Laureati che gli dedicò una mostra alla Galleria dell’Oca di Roma”. Mentre ci parla, ci fissa negli occhi e ci stringe la mano: il suo è un affetto che sa di antico e che va ad unirsi ai semplici gesti e alle parole che rivolge alla direttrice della Fondazione, Giulia Lotti, e all’inseparabile assistente Tristan Panustan.

Sempre per Arbasino, Fioroni illustrò il libro “Luisa col vestito” (Emae Edizioni, 1978), creando un guardaroba che rispecchiava e ricordava la sua stanza da bambina con bamboline e giocattoli in miniatura, Cappuccetto Rosso, un balilla in orbace, quadrifogli disseccati e variopinte piume d’uccello che Fioroni ha messo spesso su costumi e vestiti. Si intitolava proprio “Vestiti” un suo recente progetto, “un altro momento della mia produzione in cui sicuramente ho sentito un legame profondo con il mondo dei costumi. Un gruppo di opere realizzate alla Bottega Gatti di Faenza che rappresenta le eroine della letteratura attraverso i loro abiti, figure femminili individuate e identificate dai loro indumenti. Anche in quel caso ho intrecciato pittura, scultura, forme e colori modellati nella materia”.

Quelle figure – Ottilia, Isadora ed Elettra – esprimono con la loro sensualità e lucentezza, eleganza e bellezza il loro rifiuto di qualsiasi operazione che le possa spossessare dalla propria identità. Sono corpi in cui la “carne” è la ceramica, una materia animata da forze di un’energia interiore che crea un’arte potente, emotiva, istintiva, ponderata e lucida. Un’arte dove l’apparire si intreccia all’essere come è successo, anni fa, lavorando per Valentino: “Un’esperienza”, ricorda, “nata proprio da un riferimento ai costumi di quella “Carmen””. All’epoca, Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli, allora entrambi alla direzione creativa della maison di piazza Mignanelli, “diedero vita nuova vita al progetto, creando un ponte tra il passato e il contemporaneo”, con la loro “produttiva e ricca immaginazione e capacità interpretativa”. Ispirandosi a quei bozzetti del 1967, ai quali vennero aggiunti dei simboli diventati poi ricorrenti nella mia produzione come cuori, stelle, alberi, case”. Tutto o quasi, partì dal suo guardaroba, nella casa dall’altra parte del Tevere. Uno spazio a sé stante, a sua volta pieno di vita e ricordi, “un prolungamento di me stessa. Amo i capi eleganti”, sorride,”sempre caratterizzati da un dettaglio insolito che parli della mia personalità. Non mancano mai foulard dai colori vivaci e abiti dalle linee originali. Mi affascinano molto anche gli indumenti di impronta asiatica e indiana, realizzati con tessuti pregiati, decorati con motivi floreali che mi sembrano riflettere la curiosità e quel senso di meraviglia fanciullesca che ho conservato nel tempo”.

Dice che “quel guardaroba piaceva molto a Goffredo, che aveva uno sguardo attentissimo per i dettagli. Ricordo benissimo quando mi vide per la prima volta, nel 1963, al caffè Rosati. Avrebbe ricordato per sempre il mio abito a losanghe, bianco e nero. Mi osservava seduto sul bordo della sedia, quasi con ironia, ma affascinato. Era colpito dalla mia andatura un po’ arruffata e saltellante. Lui aveva una personalità originalissima, ironica e impertinente, imprevedibile e rapida. Non era condizionato da nulla, se non dal suo estro. Lo ricordo sempre con una sigaretta in mano, diretto e incisivo e con quella curiosità inesauribile e sfuggiva alla noia, sempre alla ricerca di qualcosa che potesse sorprenderlo”. Si commuove, ma poi le lacrime, anche se a fatica, lasciano il posto a un ritrovato sorriso e ai colori che nel suo studio sono ovunque, dal grande teatrino fino alla meravigliosa “Stanza delle acque”, la sala/studio da bagno progettata da Luigi Scialanga che è un luogo orientale e onirico insieme dove stare, riposarsi, bagnarsi, parlare e sognare circondati da pareti che sono come dei fogli dove scrivere e raccontarsi a sua volta.

Uscendo da lì, troviamo il lungo corridoio con le foto dei suoi amici, i disegni, altre opere e altri colori: i suoi. “Quello che più mi appartiene è certamente l’argento. È diventato così mio, così strettamente legato al mio nome. Amo anche il blu e il rosso, colori forti, decisi, che mi permettono di comunicare emozioni precise, vive, di entrare in dialogo con chi guarda”. Un narrarsi che è uno strumento per rivendicare una integrità basata sulla fusione tra corpo e spirito, conscio e inconscio, personale e pubblico dove le piaceva e le piace, come tutti, “Guardare, guardarsi, esser guardata”, citando il sottotitolo di “Speculum” – la sua mostra dello scorso anno alla M77 Gallery di Milano curata da Cristiana Perrella, neo direttrice del Museo Macro di Roma – “Una mostra in cui sintetizzai perfettamente questo mio desiderio continuo di esplorare diversi punti di vista: guardare fuori di me ed esplorare il mondo, guardare dentro di me, attraverso gli autoritratti che ho esposto e infine essere guardata, accogliendo lo sguardo degli altri. Mi interessa da sempre questo gioco di sguardi, questo scambio di prospettive, basti pensare alla “Spia Ottica” del 1968”. È la sua opera simbolo che anni fa l’artista Francesco Vezzoli le chiese di ricostruire per la sua mostra alla Fondazione Prada. Una donna (allora chiamò l’amica attrice Giuliana Calandra) veniva spiata da un buco della parete nel suo quotidiano e si annoiava, si alzava, si truccava e si vestiva. “Fu una performance di tipo letterario, perché c’era l’dea di entrare in un libro o in una pièce teatrale dove tutto è rimpicciolito e visto come in una sorta di lanterna magica con movimenti che sembravano più lenti”.

Un altro modo di fare arte che per Giosetta Fioroni, “è una forma di conoscenza profonda, un modo per interrogare la realtà e le emozioni. Per me”, aggiunge, “deve sempre stimolare domande e suscitare riflessioni. Non può essere solo decorazione, perché è un luogo di incontro, di confronto con sé stessi e con gli altri”. Che in un posto come quello in cui ci troviamo, da lei frequentato ogni giorno, anche solo per poche ore o minuti magari nel bel giardino rialzato con l’erba sempre verde, fiori e sculture, non manca mai tra mostre, eventi ed iniziative. “Il mio lavoro, che è ciò per cui vorrei essere ricordata”.

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