Il Met Gala 2025 celebra il “black style”, ma tra marchi europei e stilisti afro poco visibili, il messaggio appare più come strategia commerciale che vera inclusione. Anna Wintour resta coerente nel suo rifiuto alla Casa Bianca, confermando il potere femminile e politico nella moda globale
Lo stile occidentale, che due secoli fa diede il via alle campagne anti-schiavismo da Boston (nelle rivoluzioni, sempre città d’avanguardia), oggi esclude la Casa Bianca dalla celebrazione più importante dell’anno, il Met Gala. Poi, possiamo dire fino a quando vogliamo che una mostra sui dandy neri in giacca e bombetta, stile schiavo liberato, suona un po’ ipocrita e poco dice del ricco stile africano e della sua reale influenza sul mondo a ovest di Kinshasa, ma diamo atto ad Anna Wintour di tenere fede da otto anni al no alla presenza del presidente.
Nel dicembre del 1836, Anna e Lucia Weston, gentili signore bostoniane, inaugurarono un Antislavery Bazaar che si prefiggeva di raccogliere fondi per campagne di sensibilizzazione contro la schiavitù e fornire aiuti concreti agli africani deportati negli stati del sud e disposti a rischiare la vita per fuggire verso il nord. I diari delle due sorelle raccontano in dettaglio i preparativi, i motti ricamati sui cuscini e i puntaspilli, i libri e i saggi scritti e venduti, gli abiti di grande sartoria messi all’asta, ma dalle informazioni pubblicate anche dai giornali, archiviati alla Boston Public Library, è evidente che l’economia del progetto, nemmeno troppo piccola o locale visto che i manufatti si vendevano anche in Inghilterra e in altri Paesi europei, fosse interamente femminile: ricamatrici, tagliatrici, manager, venditrici, promotrici. “Let it be remembered”, scrisse una delle Weston nella pubblicità diffusa su “The liberator” del 20 dicembre 1844, “that this fair is mainly the product of female skill, toil and generosity”. Capacità, fatica, generosità. Lunedì notte, da questa parte dell’Atlantico abbiamo avuto la riprova che, nella vastissima economia della moda e senza mai dimenticarsi di quanti denari valga, perché alla fine quello che conta sono ancora i soldi che sposti e in quale modo e qui si parla di triliardi, sono ancora le donne a tenere dritta la barra sui diritti. Per qualunque ragione lo facciano, fosse pure per mantenere in salute un sistema che, come quello della moda, inizia a battere la fiacca e deve cercare nuove sponde commerciali, comunque lo fanno, con abilità e grazia, e il derivato di queste attività sono in ogni caso occasioni di pace, di distensione, di inclusione. Guadagnare circondandosi di facce sorridenti e di gente felice di spendere in vestiti e cappelli e di celebrare il “black style” e i “black dandy”, cioè lo stile occidentale rivisitato dopo la Freedom Act e anche, in parte, dai favolosi sapeurs africani, è un fantastico risultato: il ricavato del Met Gala 2025 è stato pari a 71 milioni di dollari. Parecchi, per una cena. Poi, resta da capire per quale ribaltamento di senso, il capo mondiale dell’anti-trumpismo “kiss my ass”, razzista e nazionalista, sia diventata Anna Wintour, una signora inglese settantenne snob come Lucifero, che vende e scrive di lusso da cinquant’anni (qualcuno di più se vogliamo inserire gli anni dell’adolescenza trascorsi nella boutique di Biba della Swinging London mentre il padre dirigeva L’Evening Standard), ma questo è innegabile, comunque vogliate metterla. Mentre le donne, e gli uomini, delle cancellerie di tutto il mondo, si interrogano sull’opportunità di incontrare l’inquilino della Casa Bianca e avviano trattative attorno ai dazi e ai danni immani che hanno già provocato, Wintour si rifiuta categoricamente di averci a che fare, che significa anche indurre decine di stilisti a non vestire la first lady Melania, e tutti i circoli eleganti del mondo, che ancora contano, eccome, non c’è mica solo l’elettorato dell’elegia americana e dei maglioni slandri della madre di J.D. Vance, il mondo è grande, a tenerlo quanto possibile a distanza. “He won’t be invited again” disse la direttrice planetaria delle edizioni di “Vogue” al “Late Late Show” di James Corden nel 2017, in zona primo mandato, dopo le prime dichiarazioni razziste.
Ha tenuto fede alla parola, ancorché non ci siano dubbi che lunedì sera, davanti allo scalone del Met tappezzato di fiori, lo sponsor principale Louis Vuitton con Pharrell Williams, direttore creativo della linea uomo, debba aver dato prova di un discreto equilibrismo, se si considera che il patron di Lvmh Bernard Arnault era fra gli invitati d’onore della cerimonia di insediamento di Trump nei mesi scorsi, e che da anni si sobbarca le ingenti perdite della fabbrica di manifattura impiantata di Texas perché anche gli “ammericani” mostrassero al mondo che mani d’oro allignano fra i coltivatori del sud e invece ops, il quaranta per cento della produzione al macero, un prezzo politico altissimo. Volessimo guardare più in profondità, in questo Met Gala vi sarebbe un discreto numero di altre ipocrisie e di altre contraddizioni accumulate e in essere, a partire dal titolo dell’esposizione: “Superfine: tailoring Black Style”, appunto una celebrazione del dandysmo afro e dei celebri “sapeur” di Kisnshasa e Brazzaville, desunto dal saggio di Monica L.Miller “Slaves to fashion: black dandysm and the styling of black diasporic identity”, uscito nel 2009, e reso più concreto, quasi ineludibile, dall’assassinio di George Floyd nel 2020. Il curatore della mostra del Met, il direttore Andrew Bolton, ci lavora da cinque anni.
Però. Senza voler interrompere un’emozione planetaria almeno quanto il potere di Wintour, siamo sicurissimi che il Met Gala 2025 fosse una celebrazione del “black style”, che sul red carpet è stato reinterpretato in via quasi esclusiva da marchi europei, dunque e inevitabilmente “white” ad esclusione di nomi come Grace Wales Bonner che ha vestito Lewis Hamilton e che fu ospite di Pitti Uomo nel 2022 e non, invece e come si scriveva nelle prime righe, un’astuta strategia di riposizionamento in tempi di crisi di marchi europei che, tranne in rari casi, vedono i fatturati erodersi e hanno bisogno di trovare nuovi mercati e nuove “community” di riferimento? Era certamente strepitosa la reinterpretazione che Miu Miu ha fatto dello stile di Zelda Wynn Valdes, una delle poche creatrici black degli Anni Trenta e Quaranta di grande fama, per Gigi Hadid, un fourreau di lamé d’oro che in tre ore ha attraversato gli account Instagram di tutto il mondo, ma a parte la comparsa di Aimee Lou Wood in Ahluwalia e il coinvolgimento di Iké Udé, l’artista afro-americano più chic del momento, non ci è parso di vedere rappresentato lo stile “dandy black” come ci si sarebbe aspettato. Pochi stilisti africani, giovani o meno e comunque non fotografati, nessun sostegno effettivo: solo un gruppo di star del potere black, da Colman Domingo in mantellona Valentino, in omaggio alla memoria di André Leon Talley, a Lewis Hamilton e As$ap Rocky, vestiti “superfine” da brand wasp fino all’altro ieri (con la dovuta eccezione, va detto, di Valentino, che già nei Settanta lavorava con la direttrice di “Ebony” Eunice Johnson) e soprattutto nelle proprie radici. Poi, qualcuno la vedrà come la vittoria del potere black su marchi che accompagnavano gli esploratori inglesi e francesi nelle loro campagne di esplorazione occupante in Africa fino agli Anni Trenta del Novecento, le stesse terre che oggi sono nelle mire cinesi, ma resta il fatto che della creatività coloratissima e indisciplinata d’Oltreceano, dal Congo alla Namibia, del gusto degli swenga zulu in Sudafrica, della vera cultura nera, si sia visto davvero poco. Michelle Francine Ngonmo, fondatrice e amministratrice delegata della Afro Fashion Association, che ogni anno ospita a Milano un evento dove Wintour non è mai mancata, sul suo account Instagram ha segnalato tutti i “superfine” nazionali, creator come Ulrich Apex Mensfashion a Michel Datan.
Ma scovare fra le migliaia di foto che hanno invaso il web nomi di quella fascia che la moda definisce “di ricerca” era piuttosto difficile. Molti, piuttosto, sono rimasti stupefatti di vedere in mostra il completo a quadri di una celebre foto di Arthur Elgort del 1988 e i famosi bauli Vuitton monogrammati di André Leon Talley, lo specialista di Gustave Flaubert che per decenni affiancò Wintour alla creatività di Vogue e che venne licenziato perché, come scrisse nella sua autobiografia, “ero diventato troppo vecchio e troppo grasso”. I rapporti fra i due non si sanarono del tutto mai più. Questa presenza suona come un omaggio postumo.