Chi lavora davvero per la guerra fra India e Pakistan

Il nazionalismo indù del primo ministro indiano Narendra Modi e i discorsi d’odio del capo delle Forze armate di Islamabad. Terrorismo e rappresaglie

La crisi fra India e Pakistan, provocata dall’attentato del 22 aprile scorso nella popolare meta turistica di Pahalgam, nel Kashmir amministrato dall’India, in cui sono morti 25 cittadini indiani e un cittadino nepalese, non è finita ieri. Con l’Operazione Sindoor – la ritorsione delle Forze armate indiane che ieri notte hanno effettuato strike chirurgici su nove siti considerati “infrastrutture terroristiche da cui l’attacco contro l’India è stato pianificato e diretto” – e la reazione immediata del Pakistan, che ha sparato lungo la linea considerata di confine, forse abbattendo cinque jet indiani (Delhi non ha confermato), sono morte più di trenta persone. Ma l’escalation andrà avanti, e a esplicitarlo è stato qualche giorno fa il generale pachistano Asim Munir, capo delle Forze armate di Islamabad.

Il suo profilo è quello tipico dei capi dell’Esercito pachistano, un’organizzazione ricca e potente che lavora nell’ombra come i suoi rappresentanti, ma sa quando mostrarsi. L’attacco del 22 aprile è particolarmente significativo per l’India di Narendra Modi: da un lato perché il governo di Delhi aveva investito molto nel turismo – e nelle rivendicazioni politiche – di quell’area del Kashmir, dall’altro lato perché a essere stati selezionati tra la folla e brutalmente assassinati dai terroristi erano stati specificamente indù, la religione più popolare in India che Modi negli anni ha trasformato in una de facto religione di stato, legata all’identità e al nazionalismo. Nei giorni successivi all’attentato del 22 aprile, l’India ha più volte minacciato rappresaglie, ha compiuto atti punitivi come la sospensione della condivisione dell’acqua con il Pakistan. Il premier pachistano Shehbaz Sharif, nel tentativo di mostrare un lato dialogante, aveva lanciato una “indagine indipendente” sul terrorismo a Pahalgam, ma nel frattempo aveva risposto con la chiusura dello spazio aereo e la sospensione di diversi altri accordi di pace con Delhi.

Già da qualche giorno prima dell’attacco, però, in India si parlava di un ritorno ai toni bellicisti del Pakistan, accusato di sostenere direttamente i gruppi terroristici che hanno perpetrato l’attacco. Il motivo era legato a un paio di rari discorsi pubblici del generale Asim Munir, specchio dell’ala più bellicosa e oltranzista del potere a Islamabad. Il 15 aprile scorso Munir aveva parlato dell’“incrollabile sostegno al popolo kashmiro”, definendo il Kashmir “la vena giugulare” del Pakistan, e legando la sua esperienza a quella di Gaza. Neanche dieci giorni dopo, il generale aveva ribadito il concetto in un discorso che era diventato virale in India, invocando la cosiddetta teoria dei due stati: “La nostra religione è diversa, i nostri costumi sono diversi, le nostre tradizioni sono diverse, i nostri pensieri sono diversi, le nostre ambizioni sono diverse. Siamo due nazioni, non siamo una sola nazione”. La teoria dei due stati in passato è stata alla base dell’identità e della politica pachistana. In passato i generali “hanno abbracciato questa retorica ideologica nei momenti di tensione con l’India e l’hanno ridimensionata quando la diplomazia si faceva sentire”, ha scritto Salman Masood sul New York Times. “La ripresa della teoria da parte del generale Munir e altri commenti sono stati interpretati da molti indiani come un deciso cambiamento nella posizione del Pakistan nei confronti dell’India”. Mentre la comunità internazionale chiede ai due paesi di “contenere” l’escalation, la direzione sembra già segnata: il Pakistan risponderà all’Operazione Sindoor, e poi Delhi risponderà di nuovo. Mentre il presidente americano Trump ieri ha commentato solo con “è una vergogna”, qualche giorno fa il suo segretario alla Difesa Pete Hegseth aveva inviato un messaggio di solidarietà sostenendo “il diritto dell’India a difendersi”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.

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