Il “fattore Trump” influisce su campagne elettorali globali, ma la sua influenza è ora più personale e volatile. Le sue dichiarazioni sulla guerra in Ucraina e altri temi spesso contraddittorie e incoerenti hanno creato frustrazione tra gli alleati, mentre Putin e Teheran sembrano trarne vantaggio, rafforzando i propri interessi
Il “fattore Trump” è diventato rilevante in molte campagne elettorali in giro per il mondo: dal Canada all’Australia, dalla Gran Bretagna alla Romania. Ingombrante e brutale, il presidente americano condiziona la vita politica ed economica ovunque, ma non più nel senso storico, cioè quello della superpotenza le cui scelte inevitabilmente hanno un impatto sulle altre nazioni: oggi è tutto più personale, più urlato, più volatile anche, perché Trump parla tanto e spesso e con poca coerenza. Basta mettere in ordine le sue dichiarazioni sulla guerra in Ucraina per capire che non riesce a scegliere, che si vanta di risultati mai ottenuti, non esercita il suo potere e dice sibillino di essere a un passo dall’accordo con una delle due parti (non dice se Kyiv o Mosca, che nella sua retorica si equivalgono) e anche se ritiene che la tregua di tre giorni voluta dal Cremlino per la giornata della vittoria del 9 maggio non sia abbastanza, dice che è “molto” se si considera la strada fatta dal punto di partenza.
Tutto, nella testa del presidente americano, è riconducibile a lui e tutto quello che si fa ricondurre a lui è, neanche a dirlo, un successo. Per questo anche tre giorni di tregua, una beffa di Vladimir Putin che vuole rendere il suo 9 maggio un trionfo, viene venduto dal capo della Casa Bianca come un risultato. La scorsa settimana, per raccontare i primi giorni della presidenza di Trump, il New York Times titolava efficace: “Cento giorni di solitudine”. L’Ucraina è l’alleato che più ha patito questa deformazione americana, ma pure per Israele e in particolare per il suo premier Benjamin Netanyahu il trumpismo del deal a tutti i costi è una doccia ghiacciata (e pericolosa). Gli alleati si adattano a questa nuova fiducia con difficoltà, mentre l’ossessione di Trump per gli accordi piace a Putin e anche a Teheran, che conta sui negoziati con gli americani per rafforzarsi, curare i suoi problemi economici e salvarsi. Vent’anni fa l’Amministrazione americana conservatrice cambiava i regimi, quella di oggi li salva.