Il fallimento lungo 80 anni del protezionismo italiano sul cinema è una lezione per Trump

Fino agli anni Sessanta in Italia c’erano obblighi di programmazione per i film nazionali e dazi sotto forma di tassa per il doppiaggio. Ma questo grande lavoro di protezione non ha rafforzato la capacità di costruire un’industria capace di stare sui mercati globali. Uno spunto di riflessione per il tycoon

I dazi sui film annunciati da Trump sono irrilevanti, confusi e problematici. Si parla di settore messo in crisi dai sussidi degli altri paesi per attrarre produzioni. Ma l’industria cinematografica americana è dominante nel mondo da oltre ottant’anni e semmai si registrano tentativi, spesso maldestri di altri paesi per ribilanciare questo flusso, significativo sia economicamente sia per il soft power, storicamente a senso unico. Nel mercato statunitense la presenza di film stranieri è marginale per ragioni storiche, per l’assenza di doppiaggio, per i budget più bassi dei film stranieri e per una preferenza della domanda interna. Eventuali dazi, dunque, raccolgono poco e non possono ridurre più di tanto un import già basso. Per contro, le possibili ritorsioni di altri paesi morderebbero pesantemente l’export americano.

Trump vorrebbe riportare in patria le produzioni statunitensi che sempre più spesso vengono girate all’estero, prevalentemente per i sussidi elargiti da governi e regioni di mezzo mondo per sostenere le maestranze nazionali e sfruttare il valore promozionale della location con un film internazionale. Qui però arriviamo alla confusione. Il primo problema è come determinare la nazionalità del film e dove posizionare geograficamente il valore aggiunto. Un problema analogo si è posto per accedere ai sussidi dei vari stati europei. Bastano regista, attore principale e shooting in Francia a fare un film francese? E che dire del produttore e dei finanziamenti? E la post produzione come entra nel conto? In Europa si è arrivati a notevoli bizantinismi con regole e pesi percentuali diversi per paesi e produttori internazionali maestri nell’adattare storie e progetti per incassare sussidi da più paesi, dove un film viene contemporaneamente definito nazionale. I film statunitensi, che sono dominanti nel mercato globale, sono ormai un reticolo di collaborazioni che inseguono le specializzazioni dei diversi paesi, i finanziamenti locali e i vantaggi di costo. Non sarà per nulla facile stabilire i confini.

Inoltre occorre ricordare che le maestranze di Hollywood, cui l’annuncio di questa misura demagogica sembra diretto, hanno perso lavoro in buona parte per gli incentivi di altri stati Usa e per i costi più bassi fuori Hollywood. Per riportare indietro le produzioni americane è molto più indicato lo strumento dei sussidi specifici che non quello dei dazi difficilmente applicabili.

Questo ballon d’essai solleva però nuovamente il problema delle barriere non tariffarie per i prodotti audiovisivi in molti paesi, specialmente europei, che l’articolo di ieri sul Foglio di Luciano Capone ha descritto con precisione, e che i produttori statunitensi si sono affrettati a riportare in primo piano sperando di spostare su questo l’attenzione di Trump. Gli obblighi di programmazione e di catalogo per televisioni, pay tv e piattaforme di streaming svolgono una funzione analoga a quella dei dazi di limitare le quantità di prodotto estero, senza il beneficio di ricavare entrate per lo stato. E lo stesso si può dire degli obblighi di produzioni nazionali ed europee, in quanto sottraggono risorse agli investimenti in prodotti esteri per concentrarli su prodotti nazionali che altrimenti le piattaforme non avrebbero effettuato. In Italia non ci sono vincoli per le sale, che pesano circa il 20 per cento sui ricavi di un film, ma fino agli anni ‘60 c’erano obblighi di programmazione per i film nazionali e dazi sotto forma di tassa per il doppiaggio, i cui ricavi hanno alimentato i primi sussidi per la produzione. Come ha ricordato Marco Leonardi sul Foglio di settimana scorsa in molti settori sia Usa che Ue hanno usato regolamenti di qualità, standard tecnici e altre barriere per proteggere industrie e lobby rumorose.

Nel cinema abbiamo una storia ormai di 80 anni di dazi e barriere destinate a proteggere un’industria nascente, ma che si sono trascinate per l’attento lavoro di lobby dei beneficiari. E’ possibile dunque trarre qualche valutazione non episodica. Questo grande lavoro di protezione non ha rafforzato la capacità di costruire un’industria capace di stare sui mercati globali, seguendo la traiettoria di sviluppo iniziata da Hollywood; non ha aumentato la quota dei consumi di film nazionali sul mercato interno, che è man mano scivolata sotto il 30 per cento; e non ha favorito le esportazioni, che restano ampiamente indietro rispetto ai principali paesi Ue. Dai dati Lumiere risulta che la propensione all’export del cinema italiano è circa del 10 per cento e nei consumi sulle piattaforme le cose non vanno diversamente.

Insomma, nessuno degli obiettivi che hanno giustificato le protezioni sembra essere raggiunto. Questo potrebbe costituire un utile avvertimento per gli ipotizzati dazi di Trump, ma potrebbe anche diventare uno spunto di riflessione sui percorsi di crescita dell’industria audiovisiva e per la messa a punto di politiche pubbliche un po’ più efficaci.

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