Medvedev assicura che, in caso di turbamenti della cerimonia del 9 maggio, il 10 Kyiv non esisterà più. Putin dice che spera non ci sia bisogno dell’atomica. Che dal 24 febbraio 2022 viene masticata come un chewing-gum dalle bocche del Cremlino. E ogni volta le minacce restano senza risposta
Il mondo è quasi spacciato. Quasi: non è poco. Parlarne come si sarebbe parlato del Titanic prima del varo, invece che dopo l’urto con l’iceberg, è un dolce inganno. Parecchio più di tre anni fa, Vladimir Putin dichiarò che la pratica ucraina sarebbe stata sbrigata in tre giorni. Parecchio più di tre mesi fa, Donald Trump (prima, in realtà, ma da allora coi pieni poteri) dichiarò che avrebbe chiuso la pratica ucraina in 24 ore. E’ tipico il modo in cui i bulli potenti si compiacciono di giocare col tempo degli ultimatum. Dmitrij Medvedev, replicando a una superflua provocazione di Volodymyr Zelensky, ha assicurato che se il 9 maggio qualcosa turbasse la cerimonia moscovita, il 10 maggio Kyiv non esisterà più. Domenica Putin ha impreziosito il film sui propri 25 anni di dittatura, con la frase benigna sulla bomba atomica, “della quale non c’era e speriamo che non ci sia bisogno, possiamo ottenere i nostri obiettivi in Ucraina senza usare queste armi”. Dall’invasione del 24 febbraio 2022, la bomba atomica viene masticata come un chewing-gum dalle bocche del Cremlino.
Ci sono, se non opinioni, sentimenti diversi sulla cosiddetta deterrenza. C’è stato un tempo, è stato anche quello della mia generazione, e il mio personale, in cui si è propugnato il disarmo unilaterale. Quanto all’atomica, c’è stata la proliferazione, e insieme qualche passo materiale e soprattutto simbolico verso la riduzione degli arsenali, fra le potenze maggiori. Qualcosa di assai vicino al miracolo aveva sventato la ripetizione dell’uso delle armi nucleari, intanto diventate enormemente più micidiali, dopo il doppio colpo di Hiroshima e Nagasaki. Poi la tendenza si è invertita, e oggi la guerra all’Ucraina persuade ogni stato della necessità di confidare la propria sicurezza, esterna e interna, al possesso dell’armamento nucleare. La Corea del Nord, tronfia delle sue testate nucleari, è cobelligerante della Russia in Ucraina. India e Pakistan, sull’orlo di una guerra aperta, sono due potenze nucleari. Israele, potenza nucleare, fronteggia l’Iran, sul punto di divenirlo.
Ogni volta che Putin e i suoi sottocapi nominano l’atomica – innumerevoli volte, ormai: quando si rompe un tabù è come quando cede una diga – le loro minacce restano senza risposta. Si può attribuirlo a un senso di responsabilità. Negli ultimi tre anni la risposta sottintesa era che dagli alleati dell’Ucraina, cioè dalla Nato, sarebbe venuta una replica proporzionata, anche se non a sua volta nucleare. Dopo l’avvento di Trump, gli alleati dell’Ucraina, e la Nato, sono nozioni nebulose, se non scadute. La domanda è: prima che il genere umano concordi sulla follia degli armamenti e li scali progressivamente fino al disarmo universale, sarebbe opportuno o no che chiunque evocasse l’impiego della sua arma atomica fosse avvertito da chiunque altri della certezza di esserne punito?