Anna Wintour al Met Gala, leader dell’antitrumpismo

Che il capo mondiale dell’anti-trumpismo “kiss my ass”, razzista e nazionalista, sia diventata una signora inglese settantenne, snob come Lucifero, che vende e scrive di lusso da cinquant’anni (qualcuno di più se vogliamo inserire gli anni dell’adolescenza trascorsi nella boutique di Biba della Swinging London mentre il padre dirigeva L’Evening Standard) è qualcosa che dovevamo ancora vedere, il capovolgimento del mondo come l’abbiamo conosciuto adesso e anche per le ragioni che vi andremo ad elencare a breve, ma è innegabile, comunque vogliate metterla. Poi, potrete osservare fino che Anna Wintour, direttrice planetaria delle edizioni di Vogue, non invita al suo Met Gala Donald Trump e sua moglie Melania dal 2017, ma una cosa era tenere la posizione in zona “primo mandato”, un’altra adesso. “He won’t be invited again” disse al Lata Late Show di James Corden. E ha tenuto fede alla parola, forte di un consenso mondiale che si misura in triliardi di dollari, cioè nelle spese pubblicitarie di migliaia di brand della moda, del benessere, del turismo, ancorché non ci siano dubbi che ieri sera, davanti allo scalone del Met tappezzato di fiori, lo sponsor principale Louis Vuitton con il suo direttore creativo Pharrell Williams debba aver dato prova di un discreto equilibrismo, se si considera che il patron di Lvmh Bernard Arnault era fra gli invitati d’onore della cerimonia di insediamento di Trump qualche mese fa, e che da anni si sobbarca le ingenti perdite della fabbrica di manifattura impiantata di Texas perché anche gli “ammericani” mostrassero al mondo che mani d’oro allignano fra i coltivatori del sud e invece ops, il quaranta per cento della produzione al macero, un prezzo politico altissimo.

Volessimo guardare più in profondità, in questo Met Gala vi sarebbe un discreto numero di altre ipocrisie e di altre contraddizioni accumulate e in essere, a partire dal titolo della mostra che inaugura oggi per il pubblico: “Superfine: tailoring Black Style”, in sintesi una celebrazione del dandysmo afro e dei celebri “sapeur” di Kisnshasa e Brazzaville, desunto dal saggio di Monica L.Miller “Slaves to fashion: black dandysm and the styling of black diasporic identity”, uscito nel 2009, e reso più concreto, quasi ineludibile, dall’assassinio di George Floyd nel 2020. Il curatore della mostra del Met, il direttore Andrew Bolton, ci lavora da cinque anni. Però. Senza voler interrompere un’emozione planetaria almeno quanto il potere di Wintour, teniamocela comunque cara, siamo sicurissimi che il Met Gala 2025 fosse una celebrazione del “black style”, che sul red carpet è stato reinterpretato in via quasi esclusiva da marchi europei, dunque e inevitabilmente “white” e non un’astuta strategia di riposizionamento in tempi di crisi di marchi europei che, tranne in rari casi, vedono i fatturati erodersi e hanno bisogno di trovare nuovi mercati e nuove “community” di riferimento? Era certamente strepitosa la reinterpretazione che Miu Miu ha fatto dello stile di Zelda Wynn Valdes, una delle poche creatrici black degli Anni Trenta e Quaranta di grande fama, per Gigi Hadid, un fourreau di lamé d’oro che in tre ore ha attraversato gli account Instagram di tutto il mondo, ma a parte la comparsa di Aimee Lou Wood in Ahluwalia e il coinvolgimento di Iké Udé, l’artista afro-americano più chic del momento, non ci è parso di vedere rappresentato lo stile “dandy black” come ci si sarebbe aspettato.

Nessuno stilista africano, giovane o meno, nessuna scoperta, nessun sostegno effettivo: solo un gruppo di star del potere black, da Colman Domingo in mantellona Valentino a Lewis Hamilton e A$ap Rocky, vestiti “superfine” da brand wasp fino all’altro ieri e soprattutto nelle proprie radici. Poi, qualcuno la vedrà come la vittoria del potere black su marchi che accompagnavano gli esploratori inglesi e francesi nelle loro campagne di esplorazione occupante in Africa fino agli Anni Trenta del Novecento, le stesse terre che oggi sono nelle mire cinesi, ma resta il fatto che della creatività coloratissima e indisciplinata d’Oltreceano, dal Congo alla Namibia, del gusto degli swenga zulu in Sudafrica, della vera cultura nera, non si sia visto proprio niente.

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