Lo spettacolo del saluto fascista alla memoria di Ramelli ripetuto martedì è un problema per tutti. Mi chiedo se e quando un responsabile della destra neofascista abbia operato un riconoscimento, in tempo utile, dei morti ammazzati della parte opposta
Ho un fatto molto personale, e molto politico. Nel 1985, dieci anni dopo l’agguato in cui il diciottenne inerme Sergio Ramelli era stato pestato a morte, a Milano, sotto la sua casa, i magistrati responsabili dell’indagine, Guido Salvini e Maurizio Grigo, resero noti i nomi e l’appartenenza politica degli autori, militanti di Avanguardia Operaia, una delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare: tutti confessi. A ridosso di quella traumatica svolta, dirigenti di Democrazia Proletaria, il cartello elettorale in cui erano confluiti in maggioranza i membri di Avanguardia Operaia dopo lo scioglimento nel 1978, così come del Pdup, del Manifesto e del Movimento Studentesco della Statale, convocarono a Milano un incontro intitolato alle “vere ragioni” della passata militanza. Affollatissimo, l’incontro ebbe la partecipazione di persone di ogni formazione di sinistra. Il proposito originario era di difendere la memoria da un paventato intento di criminalizzare, attraverso l’uccisione di Ramelli, “l’intero ’68”: e andò fallito, com’era inevitabile. Lo stesso Guido Salvini aveva una formazione e una frequentazione vicina a quella dei coetanei divenuti suoi imputati.
Ho davanti due ampie cronache del giorno dopo, una di Repubblica, firmata da Franco Vernice, e una dell’Unità, di A. Pollio Salimbeni. La cronaca di Vernice riferisce le virulente contestazioni all’intervento di Miriam Mafai: “L’uccisione di Ramelli fu un delitto”. La rievocazione di Mario Capanna, che definì l’uccisione di Ramelli “un tragico errore umano e politico”. Le parole di Giovanni Pesce, il gappista medaglia d’oro della Resistenza: “increscioso e deprecabile episodio”, e di Ludovico Geymonat. I fischi a Gianluigi Melega, deputato radicale: “Per me chiunque porti un’arma ha torto”. E i fischi a Claudio Petruccioli, del Pci: “E’ ipocrita usare il termine ‘errore’ per definire l’uccisione di Ramelli. Fu certo un errore, ma anche un assassinio”. Stefano Rodotà, che auspica “un processo giusto”. “Ancora, sfilano Mario Dalmaviva e Rino Formica, Franco Fortini e Giovanni Moro, Franco Russo e Aldo Aniasi, Edo Ronchi e Mario Spinella, Bruno Ambrosi e Costanzo Preve. Da Parigi, Oreste Scalzone”. “‘La Nuova sinistra cadde vittima di un pericoloso stato di paranoia’, afferma la Mafai. Si accende un accenno di pugilato fra autonomi e Dp: il flashback, ora, sembra completo. ‘Certo che eravamo paranoici, abbiamo fatto cose giuste, ma ci siamo macchiati anche di tanti misfatti’, dice, durissimo e serafico, Adriano Sofri. Ormai da tempo, Sofri ha accettato di parlare di quel periodo senza peli sulla lingua, e gesuitici distinguo. ’In quell’epoca ci organizzavamo anche per menarci fra di noi’, dice, ‘uccidere Ramelli fu un assassinio’, e nessuno può tentare di chiamarsene fuori, fra quanti, allora, ‘stavano nel movimento’. In sala, questa volta, nessuno se la sente di fischiare e le facce si fanno tristi e tirate”.
La cronaca dell’Unità: “Poi parla Adriano Sofri, un ex eminente che adesso fa il giornalista e ricercatore. Sofri parla quasi lo stesso linguaggio della Mafai. Dice che l’uccisione di Ramelli è un assassinio. Non bisogna trincerarsi dietro le parole. ‘Sono a disagio quando si parla del ’68 e degli anni seguenti come di un periodo luminoso, così come non sono d’accordo quando se ne parla in termini di anni bui. Dobbiamo accettare l’ambiguità e la contraddizione. Dobbiamo dire che compimmo veri e propri misfatti. Ci organizzammo anche per menarci tra di noi’. Sofri ha sorpreso, solo che lui non viene fischiato”.
Ho una doppia ragione per tornare su quella discussione di quarant’anni fa. La prima è che quando, anni dopo, venni accusato di aver comandato un omicidio, si recuperarono le mie parole per farle passare come una confessione preventiva. Avevo detto anche: “Rispetto alle persone che sono state recentemente arrestate io mi sento solidale, al di là di qualunque ricostruzione politica. Per la semplice ragione, e non è una metafora, che io avrei potuto fare quello che loro hanno fatto, direttamente o indirettamente”. Non era vero, ma era un modo necessario di dichiarare una corresponsabilità con le idee e le parole di un tempo che avevano reso possibili quelle aberrazioni. La seconda ragione è nella correzione di molte versioni disattente. Nel suo libro recente, Uccidere un fascista (Mondadori), Giuseppe Culicchia ricostruisce la vita e la morte di Ramelli, parallele, e opposte, a quelle di Walter Alasia, suo amato cugino, cui aveva dedicato un altro libro. Dell’incontro milanese scrive che Melega “fu l’unico a essere fischiato dal pubblico” – fu in vasta compagnia. E cita quella mia frase, “io mi sento solidale…”, fuor di contesto, all’inizio di un elenco di espressioni “di un certo cinismo”.
Nel 1975, quando Sergio Ramelli fu pestato a morte, Giorgia Meloni non era nata. Nel 1985, quando divennero noti gli autori dell’agguato a Ramelli, Meloni aveva 8 anni. Ora ha detto, in un sentito discorso, che la vicissitudine e la morte di Ramelli “sono un pezzo di storia d’Italia con cui tutti, a destra e a sinistra, devono fare i conti”. E’ vero, e non da oggi, né da ieri. Lo spettacolo del saluto fascista e nazista alla memoria di Ramelli ripetuto martedì, con la sola variante di una crescita di proseliti, è oggi altrettanto un problema di Meloni che degli antifascisti. Non credo alla memoria condivisa, ma alla pietà per i morti sì. Anche per questo mi chiedo se e quando una, un, responsabile della destra neofascista italiana fece mai, in tempo utile, un riconoscimento dei morti ammazzati della parte opposta.