Dalla scala mobile al Jobs Act: Maurizio Landini e gli errori di un sindacato “antagonista a prescindere” che lotta contro il governo invece che per il lavoro. Un richiamo all’eredità riformista di Tarantelli
Anche quest’anno il Primo maggio sarà una giornata di contrapposizione tra governo e sindacati, o almeno una parte di essi. Come ormai da tradizione, il governo Meloni ha scelto di annunciare delle misure nel giorno della Festa dei lavoratori. Nel 2023 venne decisa una forte decontribuzione temporanea (poi divenuta strutturale con l’ultima legge di Bilancio) per i redditi fino a 35 mila euro. Nel 2024 fu introdotto un bonus da 100 euro per le famiglie monoreddito dei lavoratori dipendenti più altri piccoli interventi. Per quest’anno la premier Giorgia Meloni ha annunciato un nuovo decreto incentrato sulla sicurezza sul lavoro. Da un lato c’è una chiara strategia politica del governo di destra di farsi interprete diretto delle esigenze e dei problemi dei lavoratori bypassando i sindacati, d’altronde FdI è il primo partito tra gli operai.
Dall’altro lato, il Primo maggio sarà per i sindacati l’inizio della campagna referendaria sul lavoro che si concluderà con il voto dell’8-9 giugno (sebbene il fronte sindacale sia diviso, con Cgil-Uil a favore dei quesiti abrogativi e la Cisl contraria). Per uno strano gioco della storia, il referendum contro il Jobs Act cade a quarant’anni esatti dal referendum del 9-10 giugno 1985 contro il taglio della scala mobile che, anche in quell’occasione, spaccò l’unità sindacale (Cgil a favore del referendum, Cisl-Uil contrarie). Ciò a cui rischia di andare incontro la sinistra è un’altra sconfitta, sebbene dalle conseguenze politiche meno importanti dopo la storica batosta di quarant’anni fa nel tentativo di disarcionare Bettino Craxi. Stavolta Giorgia Meloni non rischia nulla perché il Jobs Act è una riforma del Pd, lo stesso partito che ora fa campagna referendaria per la sua abrogazione. L’eventuale fallimento degli organizzatori sarà il prodotto del disinteresse degli elettori (mancanza del quorum) più che di una cocente sconfitta nelle urne. Se c’è qualcosa che invece è ancora attuale per il sindacato è la lezione di Ezio Tarantelli, l’ispiratore intellettuale dell’accordo di San Valentino del 1984 sul raffreddamento della scala mobile contro cui il Pci di Berlinguer organizzò il referendum, e che sempre quarant’anni fa fu ucciso per mano delle Brigate rosse per “Il coraggio delle proposte impopuliste”, come recita il titolo di un libro (Edizioni Lavoro) a lui dedicato di Emmanuele Massagli e Luca Tarantelli.
Nel mondo di oggi, dove l’inflazione è stata domata dalla Bce e in cui i salari non hanno ancora recuperato il potere d’acquisto perduto, per certi versi i problemi sono opposti a quelli degli anni 80, quando la scala mobile era il motore della spirale salari-prezzi. Oggi l’inflazione è stata domata ma, come ha ricordato nei giorni scorsi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, i “salari inadeguati sono una grande questione per l’Italia”. La più grande per ciò che riguarda il mondo del lavoro. L’attualità di Tarantelli non è quindi nella scelta tecnica di un meccanismo che non dovesse più difendere il salario replicando l’inflazione passata, ma orientandola verso il basso (una sorta di forward guidance, come era appunto la “predeterminazione” del numero di punti della scala mobile), ma in un paio di princìpi di fondo sul ruolo del sindacato che guidarono quella linea riformista.
Una prima idea di Tarantelli era che i sindacati dovessero dotarsi di centri studi molto solidi per poter elaborare politiche economiche autonome: l’ambizione del professore della Sapienza, che collaborava con il premio Nobel Franco Modigliani, era di avere competenze tecniche di alto livello per costruire un modello econometrico che consentisse al sindacato di confrontarsi direttamente con la Banca d’Italia, la Confindustria e gli altri centri dove si elaborava la politica economica del paese. Sulla base di questa profonda convinzione Tarantelli, con il sostegno del segretario della Cisl Pierre Carniti, fondò l’Isel (l’Istituto di studi ed economia del lavoro) associato al sindacato cattolico.
Oggi è evidente che i sindacati sono completamente sforniti di centri studi all’altezza, o quantomeno sono completamente ignorati dai loro leader che si lanciano in considerazioni e battaglie completamente avulse dalla realtà. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha passato gli ultimi anni a descrivere un mercato del lavoro in un pessimo stato: aumento della precarietà, riduzione delle ore lavorate e negazione dell’aumento dell’occupazione con frasi nonsense del tipo “più occupazione non vuol dire più posti di lavoro”. E’ sulla base di questa analisi della realtà che la Cgil ha promosso i referendum contro il Jobs Act per dare un colpo alla “precarietà”. Un centro studi solido avrebbe mostrato al sindacato che in questi anni il mercato del lavoro si è rafforzato notevolmente dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo, spiegando che lo sforzo sindacale dovrebbe riguardare più la contrattazione e i salari (come ha ricordato Mattarella) che le leggi sul lavoro come il Jobs Act (descritto da S&P, che ha appena alzato il rating dell’Italia, come uno dei fattori che hanno rafforzato il mercato del lavoro negli ultimi dieci anni). Ora gli occupati sono abbondantemente sopra i 24 milioni (livello record) e negli ultimi due anni sono aumentati di un milione di unità (circa 2 milioni se si considera il punto più basso durante il Covid). Ma a crescere sono stati soprattutto gli occupati a tempo indeterminato: ora sono 16,5 milioni (record storico), con un aumento di oltre mezzo milione solo nell’ultimo anno; mentre i dipendenti a termine sono in calo: 2,7 milioni (-112 mila nell’ultimo anno e circa -300 mila rispetto ai 3 milioni pre-Covid).
E così, in questi quattro anni in cui l’occupazione aumentava a colpi di circa 40 mila unità al mese e mezzo milione all’anno, Cgil e Uil hanno indetto quattro scioperi generali (uno contro Draghi e tre contro Meloni): la più grande striscia consecutiva di scioperi generali dal Dopoguerra durante la più rapida espansione del mercato del lavoro degli ultimi 30 anni. Come se non bastasse, agli scioperi generali, la Cgil ha aggiunto un referendum contro una riforma come il Jobs Act che ha fatto notevolmente incrementare il lavoro stabile, o quantomeno non lo ha ostacolato.
E questo porta all’altra idea fondamentale di Tarantelli. Nella sua visione, la costruzione di un solido centro studi era uno strumento necessario per consentire al sindacato di “poter scambiare con chiunque sia di turno al governo”. Il sindacato non doveva essere più la “cinghia di trasmissione” dei partiti, ma un soggetto autonomo e libero di poter fare “accordi di scambio” sia con la controparte datoriale sia con il governo pro tempore, qualunque esso sia. All’epoca c’era una situazione di sottomissione del sindacato, dato che la Cgil di Luciano Lama fu in una certa misura costretta dal Pci di Enrico Berlinguer a fare la battaglia referendaria per la scala mobile. Ora, per certi versi, la situazione si è ribaltata dato che è stata la Cgil di Landini a trascinare il Pd di Elly Schlein a partecipare al referendum contro il Jobs Act. Ma è chiaro che Landini con gli scioperi generali a prescindere, con l’invito alla “rivolta sociale” e ora con i referendum ha attribuito al sindacato il ruolo di leadership dell’opposizione politica ai partiti e al governo. Una visione opposta a quella di Tarantelli: un sindacato libero, anche dai propri pregiudizi politici, che prima elabora una piattaforma e poi tenta di fare accordi di scambio con chi è al governo per migliorare realmente le condizioni dei lavoratori.