Come e perché i sindacati conservatori sono diventati un ostacolo per i lavoratori

Nascondono i dati positivi, non parlano dei veri ostacoli sui salari e vogliono abolire una riforma che ha permesso di avere il record di occupati. Il Primo maggio di Landini & Co. è uno spettacolo degno del miglior Tafazzi. Auguri a tutti

Che differenza c’è, esattamente, tra organizzare una Festa del lavoro e fare la festa al lavoro? Sarà un Primo maggio molto diverso dagli altri, quello che si celebrerà oggi, perché sarà un Primo maggio in cui tutto si è incredibilmente capovolto e in cui tutto si è improvvisamente stravolto. Sarà un Primo maggio molto diverso dagli altri, quello che si celebrerà oggi, perché sarà un Primo maggio in cui coloro che in teoria dovrebbero essere i garanti del lavoro in Italia, coloro che in teoria dovrebbero essere i difensori dei lavoratori del nostro paese, coloro che in teoria dovrebbero essere gli azionisti numero uno del partito dell’occupazione, scenderanno in piazza, come ogni Primo maggio, ma non sapranno cosa mettersi addosso, non sapranno cosa dire, e non potranno che essere in imbarazzo per essere diventati quello che oggi sono: un ostacolo per il benessere dei lavoratori. Il punto in fondo è tutto qui: che differenza c’è tra organizzare una Festa del lavoro e fare la festa al lavoro? Sarà un Primo maggio molto diverso, quello che i sindacati andranno a celebrare oggi, nelle piazze di tutta Italia, perché sarà un Primo maggio in cui molti lavoratori si ritroveranno nelle condizioni di comprendere una verità elementare: tra i principali ostacoli per avere migliori condizioni dei lavoratori nel nostro paese non ci sono le famigerate politiche liberiste, non ci sono le famigerate politiche delle destre, non ci sono le famigerate politiche pro austerità ma vi sono prima di tutto le politiche dei sindacati più conservatori, quelli dannatamente interessati a fare solo lobby per i propri iscritti e quelli dannatamente poco interessati a difendere i diritti dei lavoratori.

La prima questione per capire il tema che stiamo affrontando riguarda la particolare condizione in cui si trova l’Italia. Una condizione di cui i sindacati non possono parlare per non dover fare i conti con una realtà incompatibile con la propria narrazione catastrofista. L’Italia, come sapete, da anni sta facendo i conti con un fenomeno importante, che riguarda la creazione di posti di lavoro, con conseguente aumento dell’occupazione (siamo al 63 per cento) e conseguente diminuzione della disoccupazione (siamo al 5,9, il tasso più basso dal 2007 a oggi). I sindacati tendono a minimizzare questi numeri, sostenendo che l’aumento dell’occupazione sia un dato che conta fino a un certo punto, perché l’occupazione che è stata creata in questi anni è soprattutto precaria e perché, comunque sia, l’Italia ha un grave deficit sul tema dei salari, mediamente più bassi che nel resto d’Europa, e tutto il resto non conta. I sindacati sono costretti a sostenere questa tesi – l’aumento dell’occupazione non è bello come sembra – perché i numeri reali contraddicono la narrazione degli stessi sindacati su un punto cruciale che riguarda l’oggetto di un prossimo referendum: il Jobs Act. Al contrario di quanto sostengono i sindacati, il Jobs Act, che i sindacati insieme con il Pd e il M5s vogliono abrogare, ha creato lavoro, non ha creato masse di licenziati e ha dimostrato ancora una volta che quando ricevono fiducia da parte della politica, anche a colpi di flessibilità, gli imprenditori assumono, creano lavoro, contribuiscono a migliorare l’occupazione (nel 2024, l’occupazione totale in Italia è cresciuta di 352 mila unità: +1,5 per cento).

Per ridimensionare gli effetti positivi della flessibilità, i sindacati sostengono poi che il lavoro in Italia sia pessimo perché è brutto, sporco e precario. Piccolo dato ulteriore per capire di cosa stiamo parlando. Dal 2015, anno di introduzione del Jobs Act, God bless il governo Renzi, si è registrato un significativo aumento dei contratti a tempo indeterminato. Tra il 2020 e il 2024, secondo l’Istat, vi sono stati un milione e 300 mila contratti a tempo indeterminato in più, vi sono state 470 mila trasformazioni di contratti da tempo determinato a tempo indeterminato e vi sono stati 295 mila contratti a tempo determinato in meno. La flessibilità, che i sindacati combattono, ha fatto aumentare i posti di lavoro. E già il fatto che un sindacato combatta una norma che ha contribuito a portare l’occupazione a livelli record ci potrebbe dire molto su quanto i sindacati più conservatori siano diventati un ostacolo per il futuro dei lavoratori. Affrontato questo tema, si potrebbe passare facilmente al punto successivo, ovvero alla questione dei salari. Ma anche qui la narrazione dei sindacati è deficitaria per non dire autolesionistica. Un elemento che per esempio sfugge spesso alla retorica sindacale, ostaggio dei suoi cliché ideologici secondo i quali nel mondo industriale il piccolo è sempre bello e il grande è spesso una minaccia per i lavoratori indifesi, riguarda una delle ragioni che contribuiscono ad avere in Italia salari più bassi della media europea. E così, i sindacati che combattono per avere salari migliori dimenticano ogni Primo maggio di ricordare che in Italia la retribuzione oraria media aumenta con la dimensione dell’impresa: 12,8 euro nelle imprese con 10-49 dipendenti, 19,2 euro nelle imprese con oltre 1.000 dipendenti (dati Istat del 2022). E questo significa che i lavoratori delle grandi imprese guadagnano in media circa il 50 per cento in più rispetto a quelli delle piccole imprese. I sindacati si dimenticano di ricordare questo punto non solo perché considerano ogni deroga all’idea che il piccolo sia sempre bello un pericolo per la propria narrazione anticapitalistica. Ma si dimenticano di ricordarlo perché la riforma che vogliono abbattere, il Jobs Act, ha avuto anche il merito di creare le condizioni affinché le piccole imprese possano crescere.

Lo ha fatto eliminando un incentivo che esisteva nel passato. Un tempo, per avere contratti più flessibili, fuori cioè del perimetro dell’articolo 18, occorreva tenere il numero dei lavoratori nelle imprese sotto i quindici dipendenti. Il Jobs Act ha reso flessibili i contratti anche per le aziende con più di quindici dipendenti. Risultato: dopo l’introduzione del Jobs Act, il numero di imprese che hanno superato la soglia dei 15 dipendenti è passato da 10.000 a 12.000 al mese. Numeri non sufficienti a colmare un divario sui salari che resta grave (a livello internazionale, lo sapete, l’Italia si posiziona al ventunesimo posto su 34 paesi Ocse per salari medi, con una retribuzione lorda annua media di 44.893 euro, inferiore alla media Ocse di 53.416 euro). Ma numeri comunque significativi che dovrebbero quantomeno suggerire a un sindacato con la testa sulle spalle non di tornare indietro ma di guardare avanti. Un tabù vero che i sindacati amici dei lavoratori dovrebbero invece abbattere se davvero avessero un interesse reale per l’aumento dei salari riguarda una parola che anche questo Primo maggio non verrà pronunciata in nessuna piazza d’Italia: la produttività. E quello che molti sindacati dimenticano di dire quando ragionano sui deficit dei salari presenti in Italia è che per migliorare i salari nel nostro paese la chiave della produttività sarebbe quella migliore per i lavoratori, pur essendo quella peggiore per molti sindacati. E la questione anche qui è ovvia. Legare gli aumenti di salari all’aumento della produttività darebbe la possibilità di avere maggiore crescita, maggiore benessere, maggiore ricchezza da ridistribuire e stipendi migliori.

Ma legare gli aumenti di salari alla produttività significherebbe per il sindacato dover alimentare una formula di contrattazione fatta per togliere potere al sindacato centrale: quella decentrata, che permette di legare i salari alla produttività a livello aziendale o territoriale, ma che è poco diffusa in Italia (secondo il Cnel, solo il 23,1 per cento delle imprese con almeno 10 dipendenti applica un contratto collettivo di livello decentrato, il che significa che si tratta di un contratto che riguarda circa il 55,1 per cento dei dipendenti totali). Sintesi e conclusioni. Il sindacato vuole più lavoro, ma vuole eliminare uno strumento che ha permesso in questi anni alle imprese di assumere di più (il Jobs Act). Il sindacato vuole migliorare le condizioni dei lavoratori in Italia, ma si rifiuta di combattere per permettere ai lavoratori di avere condizioni migliori per poter avere prospettive di crescita concrete (per esempio, combattere il nanismo delle imprese). Il sindacato vuole migliorare le condizioni dei salari, ma si rifiuta di promuovere gli unici strumenti che potrebbero permettere ai lavoratori di guadagnare di più (quelli legati alla produttività). Migliorare il lavoro in Italia è importante, combattere per avere salari migliori pure. Ma per farlo i lavoratori dovrebbero finalmente capire che i sindacati più esagitati, conservatori e anti sistema dovrebbero iniziare a essere parte delle soluzioni, smettendo di essere semplicemente dalla parte dei problemi. Che differenza c’è, esattamente, tra organizzare una Festa del lavoro e fare la festa al lavoro? Buon Primo maggio a tutti.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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