L’annuncio sulla pausa dei combattimenti come imbroglio per Trump e allusione a Kyiv. Chi partecipa alla guerra di Putin e chi va alla parata del 9 maggio. Tutti gli occhi su Xi Jinping
Quest’anno Vladimir Putin vuole celebrare il 9 maggio in modo indimenticabile. Sono trascorsi ottant’anni da quando la Germania nazista capitolò e firmò la resa. Sono trascorsi circa vent’anni da quando il Giorno della vittoria si è trasformato in uno spettacolo di forza, in una sfilata di minacce in potenza che il 24 febbraio del 2022 si sono realizzate tutte. Il 9 maggio delle parate, regolare e minaccioso, è un’opera di Putin e quest’anno il capo del Cremlino vuole celebrarlo in grande. Per questo ha deciso di proclamare tre giorni di tregua, dalla mezzanotte fra il 7 e l’8 maggio all’11, anche per rinfacciare a Kyiv che prima quella festa era anche sua. L’Ucraina non si illude, il 9 maggio ha cambiato significato, è la festa dell’Ue, e la risposta all’annuncio russo è stata: vogliamo vedere un cessate il fuoco che regga per un mese.
Tra gli spalti della Piazza Rossa, Putin avrebbe voluto avere il presidente americano Donald Trump, per celebrare la nascita di un’alleanza russo-americana e ricordare la vittoria congiunta di ottant’anni fa. Mosca è brava a creare simboli e per un istante, il fatto che Trump potesse farsi convincere a sedere di fronte alla sfilata dei missili russi era sembrato plausibile e molto allarmante. Per il momento la presenza del presidente americano è esclusa, ma Mosca riceverà i leader di diciannove paesi. Alcuni sono dei frequentatori assidui delle parate come i capi di stato e di governo di Armenia, Azerbaigian, Kirghizistan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan e Abcasia, che solo Mosca riconosce. Ci saranno il dittatore bielorusso Lukashenka, il presidente serbo Vucic e l’omologo della Republika Srpska Milorad Dodik.
Dall’Unione europea soltanto lo slovacco Robert Fico ha accettato l’invito. Il brasiliano Lula e il venezuelano Maduro marcheranno la presenza del Sud America. Parteciperanno anche il leader golpista del Burkina Faso Traoré, il presidente cubano Díaz-Canel, il capo dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas, il presidente vietnamita To Lam. L’ospite più prestigioso è il leader della Cina Xi Jinping, la cui presenza serve a rinfrescare l’idea che l’alleanza tra Pechino e Mosca sta bene, funziona e non è per nulla vaga. A inizio aprile, l’esercito ucraino aveva arrestato due soldati cinesi che combattevano con la Russia nella regione di Donetsk e successivamente l’intelligence di Kyiv aveva stilato una lista con i nomi e gli incarichi di oltre centosessanta cittadini cinesi arruolati dall’esercito di Mosca. La collaborazione militare si estende anche alla componentistica delle armi. Secondo fonti ucraine, Pechino avrebbe rifornito Mosca di proiettili da 60 mm, sostanze chimiche come la nitrocellulosa per i cannoni, microchip, sistemi radar e anche droni. Tra le nazioni che aiutano Putin ad attaccare l’Ucraina, la Cina è tra le più presenti, assieme alla Repubblica islamica dell’Iran, che è stata la prima a fornire a Mosca i droni Shahed, i più usati dall’esercito russo, e la Corea del nord che aiuta il Cremlino con missili, munizioni e molti uomini.
Mosca custodisce come un segreto la collaborazione con altri paesi e nasconde la presenza di soldati stranieri che aiutano il suo esercito. Ieri però c’è stata una dichiarazione insolita da parte del capo di stato maggiore delle Forze armate russe, l’eterno generale Valeri Gerasimov, che ci ha tenuto a ringraziare pubblicamente i soldati nordcoreani che hanno combattuto al fianco di Mosca nella regione russa del Kursk, di cui nel fine settimana Putin ha annunciato la riconquista. I soldati nordcoreani venivano usati come carne da macello nei primi attacchi, erano ignari di come funzionasse sul campo di battaglia e spesso venivano trattati in modo sprezzante da Mosca. Per Pyongyang però la loro presenza ha un obiettivo: devono apprendere come si fa una guerra vera, a qualsiasi prezzo. E anche a costo di vedere morire molti soldati, il dittatore nordcoreano Kim Jong Un ha continuato a mandare uomini da Putin. Secondo la testata russa indipendente IStories, il computo degli stranieri che combattono con Mosca è alto: la testata ne ha identificati almeno 1.500, provenienti da 48 paesi. La maggior parte sono mercenari, i governi di origine a volte sanno e fanno finta di nulla, oppure provano a combattere il fenomeno. In molti casi, i soldati hanno deciso di arruolarsi in seguito a campagne pubblicitarie russe che Mosca ha promosso su piattaforme come TikTok.
I nepalesi sono i più presenti, il loro numero si discosta di molto dalle nazionalità di altri provenienti dall’Asia. In Europa sono i serbi quelli più disposti a servire il Cremlino. Dall’Italia, secondo il sito russo, sono partite due persone. Cuba è un altro bacino importante, come pure alcuni paesi mediorientali come l’Egitto.
Per Putin mostrare il sostegno internazionale alla sua guerra è sempre stato importante. Chi va a combattere per Mosca può farlo per fame, più che per motivi ideologici. Ma tra i leader, chi va in Piazza Rossa il 9 maggio lo fa per mostrare un’alleanza: dal 2022 fissare i carri armati e i missili russi vuol dire approvarli.