Un uomo competente brillante, aperto, di solida cultura e buon fiuto politico. Appena vinte le elezioni, il nuovo primo ministro ha ringraziato Trump e i suoi dazi. Ecco cosa lo aspetta ora
Mark Carney ha salutato con due ringraziamenti la sua vittoria alle elezioni canadesi. Un grazie a Donald Trump (“senza di lui tutto questo non sarebbe stato possibile”, ha detto) e uno alla famiglia, la moglie inglese, Diane Fox, conosciuta mentre studiavano entrambi a Oxford e le quattro figlie: Cleo, Tess, Amelia e Sasha sedute plaudenti in prima fila. No, non è un uomo in grigio, un banchiere in grisaglia e in panciotto, un noioso esponente della “triste scienza”; il nuovo primo ministro canadese balla in felpa rossa al suono della band Down with Webster che lo ha accompagnato in una campagna elettorale veloce e brillante con la quale ha travolto colui il quale era dato per asso vincente, il conservatore Pierre Poilievre, che pensava di scimmiottare The Donald lanciando un imbarazzante Canada first. A trumpizzarsi ci si rimette, ha scritto Edward Luce sul Financial Times, ricordando che il successo di Carney può servire da esempio anche in altri paesi e da rampa di lancio in Australia per il laburista Anthony Albanese, attuale primo ministro, che i sondaggi danno al 49 per cento contro la coalizione nazionalista di Peter Dutton. La vittoria in Canada è stata chiara e i dati territoriali lo dimostrano, ma non è sufficiente per avere la maggioranza. I liberali ottengono 168 seggi invece dei 172 necessari, staccano i conservatori che ne prendono 144, eclissano tutti gli altri.
Il Blocco del Québec ha 23 seggi, i Verdi appena uno, sono fuori il Partito del popolo e quello di sinistra, il Nuovo partito democratico guidato da Jagmeet Singh, avvocato sikh che perde il proprio seggio. Dunque Carney dovrà guidare un governo di minoranza cercando il sostegno del partito francofono il che non è affatto scontato. Ma tutto questo per ora non ha spento l’entusiasmo per il successo dell’ex banchiere liberale e per la sconfitta di Trump, due facce della stessa medaglia.
Prima che il presidente americano dileggiasse non solo Justin Trudeau, ma l’intero paese definendolo il 51esimo stato degli Stati Uniti, i liberali erano a pezzi, travolti dagli errori e dalla impopolarità del primo ministro al governo da dieci anni. La scelta di Carney è stata un colpo d’ala, perché ha messo in campo un uomo competente brillante, aperto, di solida cultura e buon fiuto politico, che ha mostrato la sua lungimiranza nel gestire la crisi finanziaria del 2008 quando guidava la Banca centrale canadese e poi la ricaduta della Brexit come governatore della Banca d’Inghilterra. Lo avevano corteggiato in molti e lui aveva sempre respinto la tentazione politica per evitare troppi conflitti d’interesse. Adesso non poteva rifiutare il guanto di sfida lanciato da Trump. Senza troppi complimenti ha preso le distanze da Trudeau (“magari lo avesse fatto Kamala Harris con Joe Biden”, scrive ancora Luce) e ha lanciato parole d’ordine che hanno fatto effetto, come il mantra “padroni a casa nostra” che rimanda alla “quiet revolution” degli anni 60-70, l’epoca d’oro per il Canada, quando lui era solo un bambino.
Nato il 16 marzo 1965 da un dirigente scolastico e da una casalinga, Carney ha studiato economia a Harvard per poi prendere un dottorato a Oxford nel 1995 dove si mette in luce come giocatore di hockey su ghiaccio lo sport nazionale canadese. Sui pattini incontra Diana e non si lasceranno più. Con il PhD in tasca comincia una brillante e fruttuosa carriera alla Goldman Sachs prima di entrare alla Banca del Canada come vice governatore nel 2003. Cinque anni dopo prende il timone proprio mentre l’intero sistema finanziario sta crollando. Sceglie con coraggio di ridurre il costo del denaro proprio mentre la Banca centrale europea, al contrario, lo aumentava. Capisce che c’è un cortocircuito soprattutto tra le banche e l’unico modo di uscirne è pompare moneta, magari gettarla dall’elicottero secondo la famosa espressione di Milton Friedman. Si batte per questa strategia espansiva in ogni consesso internazionale di banchieri, lo appoggia Mario Draghi che nel 2011 giunto a Francoforte segue la stessa strada. Nel 2013 il governo guidato da David Cameron lo chiama alla Vecchia Signora di Threadneedle Street. Il leader Tory spera di evitare la Brexit e ne è tanto convinto da sfidare i nazional-populisti con un referendum. L’esito è catastrofico e tocca a Carney, il quale più volte aveva apertamente messo in guardia, evitare una catastrofe finanziaria.
La prima tentazione politica si presenta nel 2012 quando ancora è alla Bank of Canada e l’offerta di fare il ministro delle Finanze veniva dal primo ministro conservatore Stephen Harper; poi nel 2021 Carney parla alla convention liberale e cade l’ultimo velo, però due anni dopo rifiuta di candidarsi alle elezioni federali. Trudeau lo recupera alla guida di una task force economica. Ma Donald Trump è la goccia finale. La piattaforma politica del nuovo primo ministro è un mix di ambientalismo “pragmatico” (è la sua definizione), welfare state, politica fiscale di sostegno alla crescita, ma anche un chiaro impegno a ridurre le ineguaglianze. Vedremo come sarà il programma di governo e cosa riuscirà a fare. E’ chiara la sua vocazione progressista, tanto che quando ancora lavorava alla Goldman Sachs si espresse a favore di Occupy Wall Street, niente meno. Adesso promette linea dura con Trump convinto che The Donald sia forte con i deboli e debole con i forti (si è già visto nei confronti del Messico). E guarda all’Unione europea e al Regno Unito. Ma l’intreccio con gli Stati Uniti è tale che scioglierlo sarà impossibile prima ancora che dannoso per il Canada.