La chirurgia del XIX secolo era un campo di terrore, dominato dalla sofferenza. La svolta storica arrivò grazie a un giovane paziente, Edward Abbott, e a un gruppo di medici determinati a eliminare il dolore durante gli interventi. Una rivoluzione della medicina
Se non fosse per un piccolo particolare, la scena potrebbe essere quella di una conferenza o un dibattito pubblico. Un gruppo di gentiluomini vestiti in modo impeccabile, dalla tribuna, si sporge in avanti per guardare con più attenzione. Altri gentiluomini sono in piedi al centro dell’aula. Uno di loro, per vedere meglio, è salito addirittura in piedi su una sedia. Un altro regge in mano una piccola ampolla di vetro. Il piccolo particolare è l’unico uomo senza giacca, seduto, con il volto girato di lato e gli occhi chiusi. L’uomo si chiama Edward Abbott, è nato nel 1825. Ha perso da bambino entrambi i genitori, ha lottato fin da piccolo contro miseria e malattia e ha trovato lavoro in una stamperia. Il 25 settembre 1846, poco più che ventenne, si presenta al Massachusetts General Hospital. Qui il medico annota: “Quest’uomo ha dalla nascita un tumore sotto la mascella sul lato sinistro [oggi si ritiene più probabile una malformazione vascolare congenita]. Occupa tutto lo spazio anteriore al collo, delimitato all’interno dalla linea mediana, all’esterno dal bordo della mascella, in basso al livello del pomo di Adamo, e anteriormente si assottiglia gradualmente fino al margine anteriore della mascella […] Riferisce di non avere mai dolore, tranne quando prende freddo; in tal caso, percepisce il centro del tumore esterno più grande e più duro del solito”.
La storia del povero Abbott finirebbe qui se non incrociasse quella di altri personaggi. Il primo è un oscuro dentista di provincia, tale Horace Wells. Wells, come molti altri all’epoca, ha partecipato a serate in cui si inala gas esilarante, ovvero protossido di azoto. Durante una di queste serate, nel Connecticut, ha assistito a un episodio curioso. Un giovane sotto l’effetto del gas era caduto violentemente senza fare una piega per il dolore. Di qui l’ipotesi di Wells che si potesse usare lo stesso metodo per diminuire la sensibilità al dolore dei pazienti durante le operazioni chirurgiche. Per noi oggi è difficile immaginare quali atroci dolori fossero associati alle operazioni chirurgiche o anche semplicemente alle estrazioni di denti. I pazienti erano bloccati con la forza durante l’operazione o, come Abbott, rimandavano il più possibile gli interventi se non erano in pericolo di vita. Tra i blandi tentativi di indurre rilassamento prima di un’operazione c’è anche l’assai controversa tecnica del cosiddetto “mesmerismo” ispirata agli studi di Franz Mesmer.
Nel gennaio 1845 Wells parla della sua intuizione con un altro dentista, William Morton. Quest’ultimo è un personaggio bizzarro e irrequieto. Ha lavorato in una stamperia e come commesso viaggiatore. Ha studiato da dentista ma senza completare gli studi. Per superare il divieto dei genitori della futura moglie di sposarsi con quello che i genitori di lei considerano uno spiantato, si è iscritto alla Harvard Medical School, ma anche qui non arriva alla laurea. Tra i suoi docenti c’è un personaggio eclettico e scontroso, i cui interessi spaziano dalla medicina alla geologia, Charles Thomas Jackson. Morton riesce a combinare un incontro tra lui e Wells ma la risposta di Jackson è sprezzante: figuriamoci se un dentista di terz’ordine può offrire la soluzione a un problema con cui la chirurgia convive da secoli. Wells e Morton però non si arrendono e ottengono udienza da una figura ancora più influente: John Collins Warren. Illustre chirurgo, figlio e nipote d’arte (il padre John ha fondato la Harvard Medical School; il nonno Joseph, medico anche lui, si è distinto durante la rivoluzione americana tanto da divenire presidente del Massachusetts). Lui, per non essere da meno, ha fondato quella che è ancora oggi una delle più prestigiose riviste di medicina, il New England Journal of Medicine. I ritratti ce lo mostrano in una posa che oggi ci appare da film horror, in realtà all’epoca piuttosto comune nell’ambiente, con la mano orgogliosamente posata su un teschio. All’epoca dei fatti ha già sessantotto anni ed è uno dei decani della chirurgia americana.
Warren ascolta perplesso i due dentisti. Poi alla fine concede il permesso di compiere una prova nell’anfiteatro chirurgico dell’ospedale. Il piano sarebbe quello di testare il metodo di Wells su un’operazione importante, l’amputazione di una gamba. Ma il paziente prescelto, forse subodorando il fatto di fungere da cavia, non si presenta. Allora Warren domanda sul momento se qualcuno tra i presenti non abbia per caso un’operazione da eseguire. Dopo un lungo silenzio, uno studente corpulento si alza in piedi chiedendo che gli venga estratto un dente. Wells gli avvicina al volto un boccaglio e gli chiede di respirare profondamente il protossido di azoto. Dopodiché inizia ad estrarre il dente. All’inizio tutto sembra procedere bene, il paziente appare intontito. Ma poi un urlo lancinante del paziente scuote l’aula. Dopo un lungo silenzio, un grido si leva dall’uditorio contro Wells: “Humbug!”, “imbroglione!”. Wells ne esce profondamente umiliato, per lui la questione è chiusa. Ma il caso vuole che qualche mese dopo, una conoscente racconti a Morton di aver subito l’estrazione di un dente senza dolore. Il racconto risveglia l’interesse di Morton che torna a consultare il suo professore Jackson. Forse il protossido d’azoto non è la soluzione migliore, magari si potrebbe usare l’etere dietilico, che è noto almeno dal Cinquecento anche se finora non utilizzato a questo scopo. Morton lo prova sul proprio cane e poi su di sé. Quando nel suo studio giunge un paziente afflitto da un fortissimo mal di denti, decide che è giunto il momento di mettere alla prova il nuovo metodo. Fa inalare al paziente l’etere da un fazzoletto, poi procede all’estrazione del dente. Quando si riprende il paziente afferma baldanzoso: “Eccomi, sono pronto all’estrazione”. Morton gli risponde mostrando il dente già estratto. Poi lo congeda, non prima di avergli fatto firmare una dichiarazione di ciò che è avvenuto. Forte del suo piccolo successo, Morton vorrebbe tornare alla carica con l’esimio professor Warren, sostenendo che qualcosa è andato storto la prima volta, ma il metodo può funzionare. Per riuscire a convincere quest’ultimo a offrire una seconda chance serve la mediazione di un altro professore di chirurgia, Henry Jacob Bigelow, barba lunga da vecchio saggio, noto per le sue tecniche chirurgiche innovative. Warren non ha però sottomano al momento un paziente adatto all’esperimento. E’ qui che entra in campo il giovane Abbott, che si fa convincere facilmente. L’intervento viene fissato per la mattina del 16 ottobre 1846, mentre Morton continua a perfezionare il suo apparato, inserendo anche una valvola in modo che l’aria espirata non ritorni nell’ampolla. Prima del momento fatidico, Morton prende per mano il giovanotto e per rassicurarlo gli indica un signore lì vicino: è il paziente a cui ha estratto il dente qualche mese prima. “Ha paura?” gli chiede. “No, ho fiducia in voi e farò tutto ciò che dite” risponde Abbott. Dopo aver inspirato la sostanza cade in uno stato di torpore, e Warren può rimuovere rapidamente il tumore. Al termine afferma di non aver sentito quasi nulla. Warren, perfino più stupito degli spettatori, farfuglia che stavolta non è un imbroglio, perdinci: il metodo funziona. Bigelow interviene in tono trionfale: “Oggi è un gran giorno per la chirurgia. La nostra professione è stata liberata per sempre dal suo orrore” (Paolo Mazzarello, Storia avventurosa della medicina, Neri Pozza, 2023). Bigelow scrive un resoconto dettagliato dell’intervento, Insensibility during surgical operations produced by inhalation, che nel 2012 sarà votato come l’articolo più importante mai pubblicato sul New England Journal of Medicine. Non c’è purtroppo un’immagine a immortalare quel momento storico: il dagherrotipista che era stato convocato si tirò indietro all’ultimo momento per il timore di assistere a una scena troppo cruenta. Ci si dovette quindi mettere in posa successivamente per una messinscena da ritrarre in foto. Abbiamo poi un bel quadro di Robert Hinckley, che però fu realizzato circa quarant’anni dopo. E tale era ormai l’importanza attribuita all’evento che molti notabili che non erano effettivamente presenti quel giorno si fecero comunque ritrarre nel quadro.
L’entusiasmo è tale che dopo l’intervento su Abbott il giorno dopo si fa subito un’altra operazione chirurgica sotto effetto dell’etere, e poi molte altre. Rapidamente la notizia si sparge nel resto degli Stati Uniti e arriva fino in Inghilterra a Robert Liston, leggendario chirurgo scozzese noto per l’abilità manuale e la rapidità con cui esegue operazioni difficilissime. Il 2 dicembre 1846 a Londra Liston amputa una gamba “in due minuti e mezzo” dopo aver somministrato l’etere al paziente. Quando questi si sveglia credendo che l’intervento debba ancora cominciare, Liston sentenzia: “This yankee dodge beats mesmerism hollow”, “questo trucco yankee batte il mesmerismo alla grande”.
E’ l’inizio di una svolta epocale che apre una nuova fase nella storia della medicina e soprattutto della chirurgia, tanto che il giorno dell’intervento pubblico su Abbott sarà celebrato come “il giorno dell’etere”. Tra le sostanze usate, all’etere e al protossido di azoto si affianca presto il cloroformio. Il nome adatto lo trova lo scrittore Oliver Wendell Holmes in una lettera a Morton: “Lo stato dovrebbe, a mio avviso, essere chiamato ‘anestesia’. Questo significa insensibilità, in particolare – come usato da Linneo e Cullen – agli oggetti del tatto. L’aggettivo sarà ‘anestetico’. Così potremmo dire ‘lo stato di anestesia’ o ‘lo stato anestetico’. Vorrei trovare un nome abbastanza presto e consultare qualche studioso esperto, prima di fissare i termini, che saranno ripetuti dalle lingue di ogni popolo civilizzato”.
Sembra una classica storia di innovazione a lieto fine, se non fosse per la feroce lotta esplosa subito dopo per la sua paternità e soprattutto per tentare di ricavarne denaro. Il più agguerrito è Morton, che si rifiuta addirittura di rivelare esattamente il contenuto dell’ampolla e si affretta a depositare un brevetto, convinto di poter fare un mucchio di soldi. Ma anche Jackson vuole la sua parte, giacché è stato lui a suggerire di usare l’etere. I due raggiungono un accordo e presentano una richiesta di brevetto dell’apparato (giacché l’etere ormai è noto e ovviamente non si può brevettare) nell’ottobre del 1846. Ma l’alleanza non dura molto: inizia così un’aspra battaglia legale che si trascina per il resto della vita dei due contendenti. Jackson fa leva sulle sue buone relazioni con la comunità scientifica d’oltreoceano e riesce così a ottenere numerosi riconoscimenti, tra cui una medaglia d’oro al valore dal Re Oscar di Svezia. Stremato dall’ossessione per la priorità, Morton muore nel 1868 a soli quarantanove anni per un ictus durante un viaggio in carrozza. All’ospedale, avendolo riconosciuto, il chirurgo indica il cadavere ai propri studenti: “Giovanotti, sdraiato davanti a voi c’è un uomo che ha fatto per l’umanità e per lenire le sofferenze più di ogni uomo mai vissuto”. Sulla tomba la moglie fa incidere la scritta: “Prima di lui, in ogni tempo, la chirurgia era un’agonia. Grazie a lui, il dolore in chirurgia fu evitato. Dopo di lui, la scienza ha il controllo sul dolore”. Quando vede la scritta sulla tomba, Jackson è colto da una crisi di nervi. I frequenti disturbi mentali lo portano a trascorrere gli ultimi anni in manicomio.
Ma la fine peggiore la fa il terzo contendente per la paternità – e i potenziali guadagni – dell’anestesia, il dentista Wells, che di fatto era stato uno dei primissimi ad avere l’intuizione giusta. I suoi tentativi di veder riconosciuto il proprio contributo cadono nel vuoto. Affetto da problemi di salute, è costretto a chiudere lo studio dentistico. Nel frattempo, a forza di inalare cloroformio per i propri esperimenti, ne è ormai divenuto dipendente. Forse sotto l’effetto della sostanza, una notte del 1848 aggredisce a New York due prostitute con acido solforico. Rinchiuso in prigione, si toglie la vita recidendosi l’arteria femorale con un rasoio dopo essersi sedato con il solito cloroformio. Pochi giorni prima, la Société de Médecine de Paris ha riconosciuto il suo ruolo nello sviluppo dell’anestesia, conferendogli una laurea honoris causa, ma lui non lo saprà mai.
E il paziente Abbott? Per qualche anno, la pionieristica operazione sotto anestesia sembra portargli sollievo. Si sposa, ha due figli, diventa giornalista ed editore. Ma muore a soli trent’anni, nell’anonimato, nel 1855. “Morte di uno stampatore” scrive il Boston Herald, senza alcun riferimento a quel giorno di settembre in cui, anche grazie a quell’ignaro paziente, il dolore fu sconfitto per la prima volta.