Gli eredi delle vittime della Shoah alle prese con la restituzione dell’arte rubata. I Rosenberg e il muro di privati e istituzioni tedesche
Gabrielle Rosenberg ha 97 anni e vive a Los Angeles. Non le resta molto tempo, ormai, per veder parzialmente riparato il torto che lei e la sua famiglia sono state costrette a subire. Accadde nel 1935, quando suo padre, Saemy Rosenberg, mercante d’arte a Francoforte, vendette allo stato della Prussia il celebre Welfenschatz, tesoro medievale fatto di sculture, croci, tabernacoli, ostensori, scrigni d’oro e argento che secondo gli esperti di Sotheby’s ha un valore attuale di oltre 300 milioni di dollari.
“Vendette” non è esattamente la parola adatta a descrivere la transazione. Saemy Rosenberg era una leggenda nel mondo dell’antiquariato tedesco. Specializzato in dipinti antichi e mobili d’epoca francesi, nella sua galleria si davano regolarmente appuntamento collezionisti famosi come il banchiere Maximilian Goldschmidt-Rothschild e i direttori dei musei della Germania. Come racconta Gabrielle, l’acquisto del Welfenschatz nel 1929 dal Duca di Braunschweig-Lüneburg era stato il suo “più grande successo”, un vero “trionfo”. Saemy l’aveva pagato 7,5 milioni di Reichsmark, una cifra da capogiro anche per lui, impossibile da raccogliere da solo. Per questo, aveva messo su un consorzio con altri tre colleghi renani: Isaak Rosenbaum, Julius Falk Goldschmidt e Zacharias Max Hackenbroch. L’idea era di creare un museo ad hoc per esporre al pubblico gli oltre 80 pezzi della straordinaria collezione di oggetti religiosi.
Non ne ebbero il tempo. L’arrivo al potere di Hitler e l’inizio della persecuzione contro gli ebrei li costrinsero uno dopo l’altro alla fuga dalla Germania. I Rosenberg ripararono nel 1934 ad Amsterdam, dove la piccola Gabrielle ebbe come compagna di giochi una coetanea ebrea, anche lei originaria di Francoforte ed emigrata con la famiglia in Olanda: si chiamava Anna Frank e sarebbe stata uccisa nel 1945 nel lager nazista di Bergen-Belsen. La famiglia Rosenberg riuscì invece a fuggire a Londra nel 1940 e da lì, via Cuba e Messico, approdò finalmente in sicurezza a New York. Rosenbaum emigrò con moglie e figli nella capitale olandese nel 1935, Goldschmidt a Londra nel 1936, solo gli Hackenbroch rimasero intrappolati nella città sul Meno.
Prima però dovettero vendere il tesoro. Una parte venne acquistata da collezionisti e musei americani. Ma sulla metà più preziosa degli oggetti mise gli occhi il ministro-presidente della Prussia, nient’altri che Hermann Göring, numero due del regime nazista e ingordo collezionista d’arte, in gran parte frutto di saccheggi e ruberie. Perfettamente a conoscenza delle difficoltà finanziarie degli antiquari francofortesi, che erano stati costretti a rinunciare a qualsiasi attività commerciale e dovevano pagare pesanti balzelli per poter emigrare, il ministero prussiano dell’Economia mise il consorzio sotto pressione. E a fronte di un valore di 7 milioni di Reichsmark ai prezzi del 1934, riconosciuto in documenti interni dello stesso dicastero, impose ai quattro mercanti di svendere il tesoro per 4,5 milioni di Reichsmark. La trattativa fu completata in fretta e furia e la stampa di regime salutò Göring come “il salvatore del Welfenschatz”, strappato “dalle grinfie degli ebrei” e finalmente “di nuovo proprietà della nazione tedesca”.
Sulla metà più preziosa degli oggetti mise gli occhi il ministro-presidente della Prussia, nient’altri che Hermann Göring, numero due del regime nazista e ingordo collezionista d’arte, in gran parte frutto di saccheggi e ruberie
Non basta. Perché in realtà i 4,5 milioni di Reichsmark non furono affatto la cifra che andò nelle tasche dei proprietari. Per esempio, la quota che toccava agli Hackenbroch, gli unici rimasti a Francoforte, venne in gran parte sequestrata sotto forma di Reichsfluchtsteuer, la tassa dell’emigrazione che le autorità nazionalsocialiste imponevano a chi loro stesse costringevano a lasciare il paese. Nel 1937, infatti, Zacharias Max Hackenbroch era stato bastonato a morte per le strade della città da una banda di miliziani nazisti. L’anno seguente, Clementine Hackenbroch era stata cacciata insieme alla figlia Irene dalla sua casa per far posto agli uffici della Hitlerjugend. Quando finalmente pochi mesi dopo, le due donne riuscirono a partire per Londra, l’ufficio doganale di Francoforte di fatto le espropriò, trattenendo quasi tutti i proventi della vendita del tesoro.
Di più, dagli archivi della città sul Meno viene fuori anche che un’altra coppia ebrea, i gioiellieri Alice e Louise Koch, avevano partecipato con una quota del 25 per cento all’acquisto e alla vendita della collezione. Ma nel 1935, pochi mesi dopo la firma dell’atto di cessione, Alice ricevette dal Finanzamt di Francoforte un’ingiunzione a pagare un milione e 155 mila marchi come Reichsfluchtsteuer per poter emigrare in Svizzera, in pratica quasi la stessa somma che le era spettata dalla vendita.
Sono passati novant’anni. Il Welfenschatz è ancora di proprietà della Stiftung Preußischer Kulturbesitz, la fondazione pubblica dipendente dal governo federale, che conserva e preserva i beni culturali berlinesi: 17 musei, la Biblioteca statale, l’Archivio segreto di stato, gli enti di ricerca. Lo si può visitare al Kunstgewerbemuseum nella capitale tedesca. Eppure, la storia che raccontiamo, suffragata da nuovi documenti storici emersi di recente, dimostra senza ombra di dubbio che la preziosissima collezione sia a pieno titolo “Raubkunst”, arte rubata. Quella che, in base ai “Princìpi di Washington” solennemente sottoscritti nel 1999, la Germania si è impegnata a restituire ai legittimi proprietari ed eredi, “compiendo ogni sforzo” possibile per rintracciarli e risarcirli.
La storia che raccontiamo, suffragata da nuovi documenti storici emersi di recente, dimostra senza ombra di dubbio che la preziosissima collezione sia a pieno titolo “Raubkunst”, arte rubata
Tant’è. Se però andate a leggere sul sito della fondazione berlinese, si afferma ancora nero su bianco che la somma di 4,5 milioni di Reichsmark pagata al tempo fu “ragionevole”, nonostante lo stesso ministero prussiano avesse dato una valutazione molto più alta in base ai prezzi di mercato. Un secondo argomento sostenuto dalla Stiftung Preußische Kulturbesitz è che al momento dell’acquisto del Welfenschatz non ci fossero altri soggetti interessati. In realtà i nuovi documenti dimostrano che esisteva almeno un altro concorrente, il comune di Hannover, così interessato alla collezione da offrire una cifra maggiore e molto più vicina al valore reale. Ma a risolvere il problema fu il ministro prussiano della Scienza e dell’Educazione, Bernhard Rust, che in una lettera riservata minacciò il borgomastro del capoluogo della Bassa Sassonia, Arthur Menge, di “conseguenze molto negative” se avesse insistito, costringendolo a farsi da parte. Detto altrimenti, si trattò di un’offerta che gli antiquari ebrei non potevano rifiutare, un’altra delle condizioni che i “Princìpi di Washington” indicano per poter definire un’opera o una collezione d’arte Raubkunst.
Eppure, da anni le richieste di restituzione degli eredi, fra i quali Gabrielle Rosenberg, si sono sempre scontrate contro un muro di gomma, fatto di rinvii e silenzi, eretto da Hermann Parzinger, presidente della Fondazione. Soltanto a marzo Parzinger, che lascerà l’incarico a fine giugno, ha dovuto mettere fine al suo ostruzionismo e lasciare via libera alla Commissione incaricata di verificare gli argomenti degli eredi. Non senza però riproporre l’ormai insostenibile mito che il Welfenschatz non sia arte rubata. Ma vi sbagliereste di grosso se pensaste che il caso della collezione berlinese sia un fatto isolato e che le contese di restituzione di Raubkunst ancora aperte siano soprattutto quelle tra i discendenti delle vittime dell’Olocausto e i collezionisti privati.
Meno di 600 chilometri più a sud, nell’opulenta e placida capitale della Baviera, un altro scandalo, forse ancora più grave sia per le dimensioni che per le modalità, vede protagonista le Bayerischen Staatsgemäldesammlungen, le collezioni di pittura statali bavaresi. Secondo un’inchiesta pubblicata a febbraio dalla Süddeutsche Zeitung, sparsi nei depositi dei vari musei e pinacoteche di Monaco ci sono almeno un centinaio tra dipinti e sculture segnati da un bollino rosso, il marchio che certifica si tratti di opere d’arte trafugate o acquistate forzosamente dai proprietari ebrei durante gli anni del nazismo, cioè di Raubkunst. Eppure, nonostante la provenienza accertata, le autorità artistiche della Baviera in molti casi non l’hanno neppure resa pubblica e nella maggioranza di essi non hanno neppure provato a contattare discendenti e legittimi eredi: negli ultimi ventisette anni, quelli trascorsi dalla firma dei “Princìpi di Washington”, soltanto 24 dipinti delle collezioni di Monaco sono stati restituiti. Nella lista delle opere detenute illecitamente ci sono fra gli altri lavori celebri di Max Beckmann, Oskar Kokoschka, Paul Klee e Pablo Picasso, veri gioielli della corona della collezione bavarese.
Michael Hulton è discendente ed erede del leggendario collezionista ebreo Alfred Flechtheim, l’uomo che negli anni Venti portò in Germania l’arte moderna. A lui appartenevano i Klee, i Beckmann e due bronzi di Picasso che oggi giacciono nelle collezioni bavaresi. Dovette venderli e alcuni gli furono confiscati prima della sua fuga in Inghilterra nel 1933, gran parte della sua famiglia morì nei lager nazisti e alcuni suoi parenti si tolsero la vita prima della deportazione. Dal 2008 Hulton, che ora ha 78 anni, chiede la restituzione, ma la risposta dei bavaresi è sempre stata o che la provenienza dell’opera fosse legittima e che non si trattasse di arte rubata, o che le verifiche in corso non avevano dato ancora esiti certi e definitivi, quando in realtà i bollini rossi erano già stati assegnati. “Mi hanno tenuto nascosto tutto in piena coscienza, non hanno fatto nulla, non mi hanno mai contattato. Mi sento tradito”, è stato il suo commento quando un giornalista della Süddeutsche gli ha telefonato per raccontargli la storia. “Non so se mi rimane molto tempo – ha aggiunto – ma lotterò fino all’ultimo respiro per avere giustizia”.
La più celebre delle opere “nascoste” a Monaco è “Madame Soler” di Pablo Picasso, che fu di proprietà del banchiere ebreo Paul von Mendelssohn-Bartholdy, prima che fosse costretto a svendere il quadro nel 1933 a causa della persecuzione nazista. Bene, da anni le collezioni bavaresi respingono ogni richiesta di restituzione degli eredi, argomentando che lo hanno acquistato legalmente e rifiutando perfino di portarlo davanti a una commissione indipendente. Si scopre adesso che anche “Madame Soler” è marchiata col bollino rosso.
La denuncia del quotidiano ha scosso le acque. Colti con le mani nella marmellata, i responsabili del patrimonio artistico del Libero Stato hanno prima contestato i numeri (il giornale all’inizio aveva parlato di 200 opere col bollino rosso, ma la lista non era stata attualizzata) poi hanno fatto un po’ di scaricabarile, con il ministro della Cultura del Land, Markus Blume, pronto a rovesciare ogni responsabilità sul direttore generale, Bernhard Maaz. Infine, Blume ha intimato a Maaz di rendere pubblica immediatamente la lista di tutte le opere d’arte rubate in possesso della sua istituzione, verificare entro il 2026 la provenienza di quelle di origine sospetta (segnate col bollino arancione) alcune delle quali sono esposte al pubblico. E a conferma della poca fiducia, ha annunciato che una “task force” esterna lavorerà al fianco degli esperti di casa. In realtà, secondo la Süddeutsche, è dal 2021 che il ministero della Cultura bavarese sa dalla banca dati dell’esistenza di 200 opere segnate in rosso e di altre 800 in arancione. “Vogliono tenere insieme la collezione a qualunque prezzo, è una mentalità da bunker”, scrive il quotidiano.
Colti con le mani nella marmellata, i responsabili del patrimonio artistico del Libero Stato hanno prima contestato i numeri (il giornale all’inizio aveva parlato di 200 opere col bollino rosso, ma la lista non era stata attualizzata) poi hanno fatto un po’ di scaricabarile
Una svolta potrebbe venire dalla riforma approvata a febbraio dal governo federale, mirata ad aiutare discendenti ed eredi dei collezionisti ebrei a recuperare l’arte rubata. La nuova legge introduce una corte di arbitraggio vincolante per decidere sulle richieste di restituzione. Frutto di lunghi negoziati tra Berlino e le autorità dei Land, il sistema consente a un ricorrente di rivolgersi al nuovo tribunale unilateralmente, cioè anche senza il consenso dell’attuale detentore dell’opera. Secondo la ministra della Cultura uscente, la verde Claudia Roth, in futuro sarà più facile restituire le opere d’arte rubate e la Germania potrà assolvere meglio alle sue responsabilità storiche.
Non tutti sono felici della nuova soluzione. In una lettera aperta pubblicata dopo l’approvazione della legge, un gruppo di storici, legali ed eredi di collezionisti ebrei l’ha definita “un cambiamento in peggio”, perché i criteri per le decisioni della nuova istanza potrebbero aumentare l’onere della prova per gli eredi e addirittura escludere gruppi di vittime le cui rivendicazioni erano state riconosciute sotto il sistema attuale.
Ma il Consiglio centrale degli ebrei in Germania e la Conferenza sulle rivendicazioni materiali degli ebrei contro lo stato tedesco hanno salutato l’istituzione del nuovo tribunale, definendola “un passo in avanti per venire a patti con questa pagina oscura della sua Storia”.