Nel nord quasi 70 morti in un centro di detenzione dopo un bombardamento. Il tragico errore dopo lo scandalo Signal e il “buco nero” dei servizi Usa. L’operazione militare di Trump è un disastro
Nel nord dello Yemen un bombardamento americano ha ucciso 68 migranti e ne ha feriti altri 48 in un centro di detenzione del governatorato di Saada, controllato dagli houthi. L’errore nell’individuazione del target e la morte di decine di civili rischia di aggiungere nuovo imbarazzo all’Amministrazione Trump riguardo all’offensiva contro il gruppo terroristico denominata “Rough Rider”. Un video dell’emittente yemenita Masirah oggi mostrava immagini crude dei corpi fatti a pezzi tra le macerie della struttura. Le vittime sono di nazionalità etiope, provenienti dalla regione del Tigrè, impoverita da anni di guerra civile. Per fuggire, i migranti etiopi attraversano il Mar Rosso e sbarcano in Yemen, a sua volta un paese alle prese con una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, con la speranza di raggiungere l’Arabia Saudita dove cercare lavoro. Secondo l’Onu, la tratta dei migranti dal Corno d’Africa alla penisola arabica è una delle fonti di arricchimento degli houthi, che oltre a gestire gli sbarchi, rinchiudono e torturano migliaia di persone nei centri di detenzione. Dall’altra parte del confine, in Arabia Saudita, i metodi usati per tenere a distanza il flusso di richiedenti asilo sono altrettanto violenti. Nell’ottobre del 2022, l’Onu aveva accusato Riad di sparare contro i migranti alla frontiera con lo Yemen. Una strage che solo in quell’anno contò 430 migranti uccisi dai sauditi e altri 650 feriti. Sempre nel 2022, lo stesso centro di detenzione distrutto oggi dagli americani fu colpito anche dall’aviazione dell’Arabia Saudita – che pur bombardando a tappeto gli houthi dal 2015 in poi non è mai riuscita a sconfiggerli. I numeri dei migranti uccisi dai sauditi in quel caso furono simili a quelli di lunedì: 66 morti e oltre un centinaio di feriti. Chi riuscì a salvarsi e tentò di scappare dal centro fu ucciso dagli houthi durante la fuga.
Poco prima della notizia dell’attacco, il generale Michael Kurilla, capo del Comando centrale americano, era atterrato sulla portaerei Vinson, da dove partono gli attacchi verso lo Yemen, e si era complimentato con gli uomini impegnati nei raid contro gli houthi per la loro “professionalità, dedizione e competenza”. Da allora il Pentagono è rimasto in silenzio, mentre aumentano i dubbi sull’efficacia della campagna militare in Yemen, in particolare sull’affidabilità delle informazioni sui bersagli da colpire messe a disposizione degli americani. Nell’ultimo mese, dalle portaerei Truman e Vinson dislocate tra il Mar Rosso e il Mare arabico, sono stati lanciati 800 attacchi “uccidendo centinaia di combattenti houthi e decine di comandanti”, ha rivendicato due giorni fa il Pentagono, che però non ha mai diffuso i dettagli sulle identità dei leader neutralizzati. In teoria, l’operazione ha un obiettivo duplice. Da una parte, dovrebbe convincere l’Iran a interrompere i rifornimenti di armi agli alleati houthi e a diventare più accondiscendente nell’ottica dei negoziati sul nucleare. Dall’altra, dovrebbe ristabilire la libertà di navigazione nel Mar Rosso, dove le navi israeliane e occidentali sono colpite dai droni e dai missili dei terroristi schierati in solidarietà con Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre. Finora, nessuno degli obiettivi è stato raggiunto, a fronte di un costo notevole per gli americani, quantificato da fonti anonime sentite dalla Cnn in oltre un miliardo di dollari solo in questo primo mese di operazioni.
A complicare la campagna di Trump ci sono diversi fattori. La geografia del territorio aspra e montuosa rende difficile individuare arsenali e piattaforme di lancio dei missili scavate sottoterra. Poi ci sono le contromisure adottate dai terroristi, come la decisione recente di “arrestare chiunque venda, usi, installi o possegga” dispositivi satellitari di Starlink, sospettati di essere lo strumento prediletto dagli americani per identificare i target sul terreno. Ma il limite principale è la mancanza di informazioni di intelligence adeguate, un limite aggravato dalla chiusura dell’ambasciata degli Stati Uniti nel 2015. “Da allora gli americani hanno condotto solo operazioni limitate di anti terrorismo e anti contrabbando, ma senza compiti di combattimento, spiega al Foglio Mohammed Albasha, della società di consulenza americana Basha Report. “E’ dal 2004 che gli houthi hanno imparato ad adattarsi, a decentralizzarsi, a nascondere il loro arsenale”. Un anno fa, il funzionario del Pentagono Daniel B. Shapiro riferì in audizione al Congresso che l’aver messo lo Yemen in secondo piano per anni ha indebolito l’intelligence americana nel paese. Il danno era enorme perché, secondo Shapiro, sebbene gli Stati Uniti abbiano “un’idea” di quello che colpiscono, non ne conoscono “il denominatore”, cioè non sanno quanto grande sia l’arsenale a disposizione degli houthi. Per Basha, il risultato è che oggi “il nord dello Yemen, dove si trovano gli houthi, è un ‘buco nero’”.