Alla prima funziona tutto. Dodici minuti di applausi per l’opera di Francesco Filidei, che restituisce alla complessità del romanzo di Umberto Eco una veste musicale raffinata e potentemente teatrale in uno spettacolo visionario
Dopo sette frati variamente spediti all’altro mondo e due eretici e una strega cucinati flambé dall’Inquisizione, domenica Il nome della rosa di Francesco Filidei è stato accolto da dodici minuti di applausi. Seratona molto da Scala, con teatro gremito, comitive di inviati di giornali e sovrintendenti di teatri, colleghi compositori presenti in massa (quando Mascagni o Giordano andavano alle prime di Puccini e viceversa, sarà stato uguale?), familiari di Eco, telecamere di Rai5, eccetera. Per l’opera contemporanea, non capita spesso. Il rischio, con un romanzo così stratificato e labirintico, era quello di rimpicciolirlo a mero thriller in saio, esattamente come ha fatto il film. Primo merito di Filidei e del suo librettista, Stefano Busellato, è di aver salvaguardato la complessità di Eco. Proprio come succede quando si legge il libro, lo scoglio è quello di “entrare” nel meccanismo: una volta dentro, si coglie il gioco di simmetrie, rimandi ed echi (appunto) che c’è sia nella drammaturgia sia nella musica.
Certo, la fedeltà al testo letterario non è in se stessa un merito; qualche volta, anzi, può diventare un problema. Eco è un accumulatore seriale di materiali, elenchi, citazioni, d’accordo. Ma magari in teatro non è indispensabile che, in un primo atto di 93 minuti, Berengario chieda a Guglielmo da Baskerville gli autori di dodici-libri-dodici, o che l’abate elenchi proprio tutte le pietre del suo anello. Si sa: per i veri innamorati dell’Iliade, nulla è più godurioso del catalogo delle navi. E tuttavia la drammaturgia funziona, il giallo ha la prevista suspense, però ci sono anche la Commedia di Aristotele e le dispute fra ordini religiosi, il greco e il latino, gli eretici dolciniani e il grammelot di frate Salvatore. Non si saprebbe dire cosa sia il piatto forte e cosa il contorno: a teatro, è una garanzia che l’insieme funziona. Come funziona, benissimo, la musica di Filidei, con una serie di riferimenti amplissima, dal gregoriano a Sciarrino, da Perotinus al minimalismo, con tutto quel che c’è in mezzo, perfino Il barbiere di Siviglia: del resto, lo scrive Eco nelle Postille che Il nome della rosa è un melodramma buffo. Ma Filidei non si limita al gioco postmoderno della citazione o della parodia: elabora questi materiali in un linguaggio musicale personale e riconoscibile, e soprattutto molto teatrale. Poi si possono apprezzare i dettagli tecnici, i cori raffinatissimi, il rigore della struttura, la ricchezza dell’orchestrazione, con una sezione delle percussioni scatenata e apparentemente inesauribile.
Ma resta il pregio di un istinto teatrale che oggi ha pochi eguali. E allora ecco una meravigliosa baruffa, puri Meistersinger, introdotta però da una citazione letterale di Falstaff, o il bellissimo arioso di Adso “Sub tuum praesidium”, mentre i monaci cantano un’antifona e la statua della Vergine vocalizza in acuto. Al giovane Adso, un mezzosoprano, spettano in effetti le parti più liriche (il suo mentore Guglielmo, baritono, si esprime per lo più con dei vigorosi declamati), culmine il finale del primo atto, il duetto d’amore con la Ragazza, cioè lo stesso soprano della Madonna, tutto una coloratura non isterica ma estatica, che è un notturno di vertiginoso erotismo.
E’ difficile separare la qualità dell’opera da quella della sua realizzazione. E qui va dato atto alla Scala di essersi comportata da Scala: se fai delle operazioni del genere, devi crederci e investirci. Ergo, splendido spettacolone griffato Damiano Michieletto dove il pulp medievale viene declinato in chiave contemporanea, fra le sublimi installazioni, sono più che scene, di quel genio di Paolo Fantin, comprensive di mirabolanti effetti speciali, Madonne che si muovono, lettere miniate che prendono vita, scorpioni che pinzano monaci. Una meraviglia. L’esecuzione è ottima, grazie al polso sicurissimo di Ingo Metzmacher, anche se qualche stacco di tempo è parso un po’ indugiante e mi è sembrato che il coro, peraltro impegnatissimo e bravissimo, abbia mancato un attacco. Locandina chilometrica e ottima pure lei. Forse il meno convincente è proprio Guglielmo, perché la pronuncia italiana di Lucas Meachem non è irreprensibile e, quanto a carisma, Sean Connery era un’altra cosa. Bisogna citare almeno Kate Lindsey, eccellente Adso, e l’altra signora che fa l’uomo, e che uomo, nientemeno che l’inquisitore Bernardo Gui: fantastica Daniela Barcellona. Del gran successo si è detto. Da segnalare tuttavia un paio buatori accaniti: la minoranza rumorosa, diciamo così.