Francesco, un leader fatto Papa

Bergoglio ha governato la Chiesa in virtù di una forza che è cresciuta col crescere dell’acclamazione collettiva: effetto di ritorno di quel todos, todos, todos teologicamente scriteriato ma assai efficace

L’impegnativo saggio dell’amico Luca Diotallevi ha tra gli altri meriti quello di ricondurre la figura di Papa Francesco a coordinate storiche, politiche e ecclesiastiche che spesso sfuggono. Entro subito in tema, offrendo alla discussione qualche mia riserva. Diotallevi ripropone alla nostra riflessione la categoria di “intransigentismo”, usata sistematicamente nel fare storia del cattolicesimo da uno storico puro come Daniele Menozzi. Certo, imparammo molto da un piccolo volume del 1953, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità di Fausto Fonzi. Se ricordo bene, Fonzi liberava il fenomeno democratico-cristiano dalla esclusiva cifra – ma cara al popolarismo Dc del Dopoguerra – dell’incontro tra cattolicesimo e democrazia, per ricordare la persistenza di un nucleo delle origini, l’intransigentismo appunto. Nella sostanza esso è il rifiuto della neutralizzazione liberale della verità cattolica e dei suoi istituti.

La “democrazia cristiana”, un concetto prima che un nome, nella sua dimensione di “azione cattolica”, trascende il cattolicesimo liberale – che è pur sempre riconduzione della Rivelazione nello spazio della coscienza e in una pratica silente. E si fa visione moderna di una società cristiana, di una “architettura cristiana dello stato” (La Pira alla lettera, 1954), ad esempio. Si tratta, aggiungo senza pudori, del Sillabo del 1864 – sintesi di venti anni di battaglia – riletto a distanza, operando distinzioni e precisazioni entro gli oggetti della frontale polemica medio-ottocentesca, ma riconoscendo la validità della critica cattolica a quel Moderno che si auto pone (nei princìpi e negli ordinamenti) come emancipazione e realizzazione dell’Uomo. Mi è capitato di scrivere un quarto di secolo fa che questo ritornare in sé costituisce la Modernità di Roma, con l’atto fondante del Vaticano I, i grandi pontificati, a partire da Pio IX, e la cruciale condanna del Modernismo. E lo stesso Vaticano II – pensato da Roncalli come compimento di questo processo, secondo una emergente sensibilità, più che dottrina, di Adaptation.



Mi pare, allora, metodicamente deformante proiettare intransigenza su ciò che è oggettiva pratica cattolica. “Intransigente” è colui che appare tale a chi ha scelto per sé una misura di secolarità, in genere la irrilevanza pubblica, anzi storica, della Rivelazione. Una categoria compromessa in partenza. Tanto meno userei “intransigentismo” per l’azione di Papa Bergoglio, anche se capisco la sottigliezza critica di questo accostamento. Pongo piuttosto all’attenzione di Diotallevi e dei lettori tre punti cruciali: 1. la componente “populistica”, 2. la dominante delle élite parrocchiali (potremmo dire ora, del popolo “sinodale”), 3. L’opposizione utopia (o “profezia” moderna) /teologia.



1. A mio avviso, niente collega Bergoglio ai grandi Papi di governo, se non il mero fatto di aver governato imponendo la propria volontà. Il modello pacelliano è tutto nell’equilibrio di responsabilità (dottrinale) e decisione (politica) pro Ecclesia, di istituzione umana e governo di Cristo (del Suo cuore). Tre quarti di secolo dopo, Papa Bergoglio è, si sarebbe tentati di dire, l’opposto, favorito in questo e quasi veicolato dalla transizione post Concilio, che infine ha portato a Roma un non raro vescovo antiromano. Si deve accettare, però, la tesi di una peculiarità latinoamericana di Bergoglio: con lui il Papa opera verso l’interno e verso le opinioni pubbliche secondo un modello populista. Non mi convince l’idea di un populismo gesuita di lungo periodo, elaborata da Loris Zanatta nel 2020. La categoria appare inapplicabile all’età moderna, prima delle transizioni rivoluzionarie di Sette-Ottocento: esse creano il “popolo” e gli “attori” del populismo in senso proprio. Nella Chiesa, poi, il “populismo” è fenomeno che richiede la precondizione di una cristianità destrutturata e fomentata in senso anti istituzionale da una intelligencija. Questa precondizione matura tra gli anni Trenta del Novecento e il collasso postconciliare delle Chiese locali (o nazionali) europee. Ma, fatta questa riserva sulla diacronia, il populismo gesuita contemporaneo è bene caratterizzato. Uso parole mie. Il Papa opera da leader personale in virtù di una cultura politica, quella latinoamericana, che gli offre i modelli, ottiene risposte che si rivolgono alla sua persona, governa spesso in maniera autoritaria (perdonando forse, ma liquidando, gli oppositori) in virtù di una forza che cresce col crescere dell’acclamazione collettiva: effetto di ritorno di quel todos, todos, todos teologicamente scriteriato ma efficace. Il suo carisma resta esterno al weberiano “carisma d’ufficio”. Possiede il munus petrino ma è come non lo esercitasse, puntando sul suo proprio; è un leader sul soglio di Pietro. In più l’acclamazione è (profondo assunto di Carl Schmitt) la fonte per eccellenza del mandato democratico – non negli ordinamenti liberali. Bergoglio è stato, in potenza, un leader democratico puro.

2. La “milizia” di Bergoglio non potrebbe essere un laicato “intransigente”. Quel laicato non esiste più dalla implosione dell’Azione cattolica (anni Settanta, in Italia) col conseguente traumatico esaurirsi del canale di alimentazione Ac-Dc. Il post Concilio politico annientò, per molti di noi, le forme del laicato a riconoscimento gerarchico.


Bergoglio trova invece un “popolo” militante (sui generis e a bassa intensità) in quella estesa rete mondiale di minoranze praticanti che è la rete parrocchiale, cleri, religiose e laici.
Da noi i leader sopravvissuti della stagione conciliare avevano via via indirizzato numerose di queste élite parrocchiali contro la “Chiesa dei no”, quella di Wojtyla e tanto più di Ratzinger, odiato come prefetto e non amato come Pontefice. Logicamente si sono riconosciute in Bergoglio, vorranno essere la sua eredità.


Diotallevi affianca per contrasto il liberalismo dei Papi europei al non liberalismo populista di Francesco. Sì, a una condizione: non confondere l’accettazione dello stato liberaldemocratico con l’assorbimento del liberalismo religioso. Perfetta la definizione data nel “Biglietto-speech” dal cardinale Newman appena nominato, 12 maggio 1879: “Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro; una convinzione questa che ogni giorno acquista più credito e forza. E’ contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non è un fatto oggettivo o miracoloso. Ed è diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede”. Ora, Eugenio Scalfari, un liberale religioso, fu eletto da Francesco come amico e confidente. Preme anche a me la questione: “cattolici e politica”. Ma non si fa politica cattolica con dei “transigenti” in capite et in membris.

3. Con benevolenza l’amico Diotallevi scrive di “parsimonia” teologica di Papa Francesco. La parsimonia è una virtù; ma in Bergoglio, tra la semplicità “evangelica” e la pratica populistica, vi è diffidenza verso la teologia più che parsimonia. Si tratta peraltro di un dato comune ai recenti riformatori “profetici”. Il credo in unum hominem come alternativa ai Credo antichi, piace: “Fare uomini, non cristiani” è divenuto un topos da omelia domenicale. Questa è la “laicità della profezia”. Per sviluppare questa “fede” bastano le antropologie, l’ecologia, l’utopia, le battaglie civili dei “laici”; i loro linguaggi saturano le encicliche di Bergoglio. Sarei meno benevolo.

Niente intacca la carità di Francesco, che si celebra in questi giorni. Ma le altre dimensioni le si affiancano, convivono. Una personalità divisa, conosciuta, già in Argentina, come contraddittoria. Non un modello per i futuri Papi. Credo che Diotallevi sia d’accordo con me.

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