La Chiesa dopo Papa Francesco

Bergogio ha aperto strade nuove, ma ha anche lasciato aperti problemi che il successore dovrà affrontare. Un bilancio del pontificato

Il pontificato di Francesco si è concluso e si può così provare a delineare un primo e provvisorio bilancio del suo servizio petrino. Al di là delle novità introdotte dell’elezione – per la prima volta si tratta di un Papa che è membro della Compagnia di Gesù, proviene dall’America latina e ha osato assumere il nome di Francesco, l’alter Christus – Bergoglio ha introdotto un cambiamento di rotta. I due predecessori, Giovanni Paolo II e, in maniera più accentuata, Benedetto XVI avevano proposto un rapporto con il mondo moderno segnato da un progetto di neo-cristianità. I credenti dovevano infatti impegnarsi a ricostruire un ordine cristiano della vita collettiva, che faceva perno sulla legge naturale, di cui il magistero si autoproclamava autentico custode e interprete. I risultati si sono rivelati deludenti: i processi di secolarizzazione e di scristianizzazione, lungi dall’arrestarsi, si sono dilatati.

Il Pontefice argentino non si è limitato a proclamare che ogni richiamo a un regime di cristianità, ormai irrimediabilmente tramontato, costituisce soltanto un ostacolo all’efficacia dell’azione pastorale della Chiesa tra gli uomini d’oggi. Ma ha anche ripreso un elemento dell’aggiornamento ecclesiale che, pur prospettato al Vaticano II, il papato dei decenni post conciliari, dopo qualche oscillazione iniziale, aveva accantonato. Francesco ha infatti ricordato che la Chiesa, lungi dall’essere al di fuori e al di sopra della storia, non solo nella storia vive, ma anche dalla storia impara. In quest’ottica Bergoglio ha rilanciato l’attenzione ai “segni dei tempi” proposta da Giovanni XXIII. Come è noto, per Roncalli una loro corretta interpretazione consente di giungere ad una più raffinata intelligenza del Vangelo che, senza alterarne la sostanza, comporta una formulazione del messaggio cristiano in termini coerenti con i bisogni profondi degli uomini contemporanei.

La Chiesa avrebbe così potuto uscire dal ripiegamento difensivo cui la modernità l’aveva confinata e realizzare un rilevante “balzo in avanti”. Il Pontefice argentino ha applicato questa linea in ogni ambito della vita ecclesiale. E’ ovviamente prematuro misurarne il successo, anche perché gli strumenti della sociologia religiosa non rilevano la fede cristiana, ma i comportamenti esteriori. Tuttavia è evidente che Francesco ha aperto strade nuove, ma ha anche lasciato aperti problemi. Il suo successore e l’intera comunità ecclesiale saranno chiamati ad affrontarli. Si può esemplificare questa situazione su tre nodi cruciali del presente. Un primo elemento riguarda l’atteggiamento della Chiesa sulla guerra.

Nel messaggio, pubblicato nel gennaio 2017 per la cinquantesima Giornata mondiale della pace, Francesco abbandona la tradizionale concezione della guerra giusta. Vi asserisce che lo stile di una politica diretta alla costruzione della pace, per un cristiano che vuole essere coerente con il Vangelo, deve fondarsi sulla “nonviolenza attiva”. La buona novella portata Gesù richiede infatti “di rispondere al male con il bene, spezzando in tal modo la catena della ingiustizia”. Non si tratta di “resa, disimpegno e passività” nei confronti dell’ingiustizia; ma, al contrario, di trovare, con uno sforzo creativo, nuove vie per sconfiggerla, senza dover ricorrere alla “forza ingannevole delle armi”.

Tuttavia, dopo l’aggressione della Federazione russa all’Ucraina nel febbraio 2022, il discorso del Papa si fa più cauto. Francesco afferma che, nella misura in cui si rispettano le regole poste dalla morale, l’autodifesa dall’aggressore non solo è pienamente legittima, ma manifesta anche valori positivi. In questa chiave richiama la dottrina della guerra giusta, pur auspicandone un approfondimento. Ne sono evidente sfondo sia le pulsioni nazionalistiche di alcune Chiese, come quella ucraina o polacca, sia la totale impreparazione dei cattolici ad approntare adeguati strumenti per organizzare una valida opposizione nonviolenta ad un’aggressione bellica. La reazione di Israele all’attacco terroristico di Hamas, porta poi Roma a sottolineare la proporzionalità della risposta militare. Ne viene ulteriormente rafforzato il richiamo del Papa alla dottrina della guerra giusta. La proporzione tra mezzi e fini ne costituisce infatti un cardine.

Appare dunque chiara l’eredità del pontificato di Francesco su questo tema. Il suo insegnamento è stato condizionato da una stagione di generale ripresa del bellicismo nei rapporti internazionali. Pur dovendo ribadire il principio di una possibile giustificazione morale della violenza bellica, il Papa ha aperto la strada a un futuro in cui la nonviolenza evangelica, cessando di essere confinata ai margini ecclesiali, si affermi come prassi cristiana diffusa al punto da diventare efficace strumento di opposizione alla ingiusta violazione del diritto senza ricorrere all’uso delle armi.

Un secondo elemento riguarda un’affermazione avanzata fin dall’esortazione apostolica di inaugurazione del pontificato “Evangelii gaudium”: tra le verità della dottrina cattolica esiste una precisa gerarchia. In quest’ottica i “valori non negoziabili”, cui si richiamavano i predecessori, non sono accantonati, ma sono subordinati alla Scrittura. Questa costituisce infatti il fondamento di una fede cristiana, di cui la misericordia verso tutti è l’aspetto essenziale e costitutivo. L’applicazione paradigmatica di questo indirizzo si trova nella trattazione del nesso tra legge naturale e collocazione della persona omosessuale nella comunità civile e ecclesiale.

Sul piano dei pubblici ordinamenti il Papa non ritiene più necessario, anzi non giudica nemmeno opportuno, che la legislazione, alla luce delle specifiche situazioni della società contemporanea, proceda ad una meccanica ricezione della dottrina cattolica. Francesco manifesta così il riconoscimento della piena laicità dello stato. Sul piano ecclesiale il ribadimento della dottrina del sacramento matrimoniale come “un’unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta a generare figli”, si accompagna con la concessione ai vescovi di discernere, nel concreto svolgimento del loro ministero, l’opportunità di concedere la benedizione alle coppie gay che ne facciano richiesta.

Si tratta di una ripresa dell’assai tradizionale distinzione tra “tesi” (la verità oggettiva) e ”ipotesi” (la sua traduzione secondo carità pastorale). I limiti di questa impostazione sono emersi in diverse circostanze. Sono diventati evidenti quando Bergoglio ha utilizzato, in ordine alla presenza di persone omosessuali in ambienti clericali, termini da esse ritenuti offensivi. Insomma una posizione che, pur subordinando la legge naturale alla misericordia evangelica, ne ripropone una visione fissista non pare in grado di risolvere la questione di una Chiesa capace di parlare a tutti gli uomini d’oggi. Tuttavia, a più riprese, Bergoglio ha anche ricordato che il suo governo ha inteso aprire processi in un contesto “del tutto inedito nella storia dell’umanità”. Lo sviluppo del percorso di ridefinizione del rapporto tra il Vangelo e il deposito di una dottrina gravata da sedimentazioni determinate da contingenze storico-culturali costituisce un altro dei problemi lasciati aperti dal suo governo.

Un terzo elemento riguarda la questione politica. Francesco ha proseguito la linea tracciata dal Vaticano II. La Chiesa abbandona quella dottrina dell’indifferenza verso i regimi politici, che l’aveva portata alla legittimazione dei fascismi, per attestarsi sulla proclamazione della preferenza per la democrazia. In quest’ottica il Pontefice argentino, legato alla teologia del popolo latinoamericana, ha accentuato il tema del controllo popolare sulle scelte dei governanti. I suoi detrattori lo hanno accusato di un cedimento al populismo, vedendo una continuità tra le posizioni attuali e un passato caratterizzato da contiguità con qualche esponente del peronismo. Francesco non ha mancato di replicare, non limitandosi a ripetute e inequivocabili censure del populismo, ma approfondendo anche il significato del suo richiamo al popolo.

Ha dichiarato che intende sollecitare l’insieme del popolo, composto da cattolici e non cattolici, a elaborare “laicamente e liberamente”, come ha notato anche di recente, un progetto di comunità futura. In questa discussione collettiva il ruolo dei cattolici è ridefinito: ad essi non spetta più, come un tempo, invocare privilegi, bensì alimentare la speranza di un futuro migliore. A questo scopo avanzano proposte, inevitabilmente plurali, ma tendenti ad una convergenza finale su un condiviso disegno di bene comune, di cui sono cardini giustizia sociale e cura dell’ambiente. L’intervento del papa sembra insomma voler stimolare una rivitalizzazione della democrazia in un momento in cui appare drammaticamente in crisi.

Resta tuttavia il fatto che nel mondo attuale non mancano cattolici che sostengono quei nazional-populismi che hanno elevato i modelli di “democrazia illiberale” a punto di riferimento per la loro partecipazione alla vita pubblica. Ne è eloquente testimonianza il caso statunitense. Una parte consistente della comunità ecclesiale si è schierata per l’elezione di Trump: non a caso il vicepresidente è un cattolico. Se Bergoglio ha apertamente denunciato un aspetto di queste tendenze – l’ossessione identitaria per la minaccia rappresentata dal diverso, spesso identificato nel migrante – ha però lasciato alla coscienza individuale di scegliere, nel momento elettorale, il “male minore”. La mera valorizzazione del popolo, senza un’articolata teologia politica, rischia così di portare alla prevalenza dell’interesse della collettività nazionale sui diritti della persona. Anche su questo punto l’eredità di Francesco richiede precisazioni.

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