Il dolore che si prova cercando di evitare il dolore. Storia di una bocca

Nel suo nuovo libro Pathemata – O, la storia della mia bocca, Maggie Nelson esplora il dolore fisico e emotivo attraverso il simbolo della mandibola. La narrazione attraversa malattia, memoria e relazioni, portando il lettore in un viaggio tra realtà e sogno, vulnerabilità e consapevolezza

In Bluets era il blu primario del fiordaliso. Nel nuovo Pathemata – O, la storia della mia bocca (traduzione di Alessandra Castellazzi, nottetempo), il filtro scelto da Maggie Nelson per dispiegare le varianti dell’angoscia e del desiderio insite nella relazione con gli altri è un umiliante dolore alla mandibola. Se in Bluets la narrazione scaturiva da visioni, biografie, emozioni macchiate di blu per far emergereincognite profonde, in questo secondo capitolo di pari fascino, l’autrice riscopre il mondo per come questo dialoga e s’introduce nel proprio dolore, rivisitando così il motto: Pathemata Mathemata. Riducendo il libro a una tesi da dimostrare e qui ottimamente dimostrata, sarebbe quella di R.D. Laing: “C’è molta sofferenza nella vita e forse l’unica che può essere evitata è quella che deriva dall’evitare la sofferenza”.



L’estenuante peregrinazione tra i fallimentari tentativi di cura per le infiammazioni all’articolazione temporo-mandibolare è un trucco per offrirsi all’altro dal basso, da un mobile lettino delle visite; l’intimità non è erotica come in Bluets ma a un livello più privato ancora, quella bocca e il suo interno in cui tutti mettono mano; la bocca con il proprio ruolo letterale e simbolico nella vita di una scrittrice. In una serie di incontri a San Francisco al tempo del Covid – con il figlio, primari, osteopati, psicologhe, h l’amante, l’amica malata terminale – a parlare è soltanto il dolore, ma dispone di un’ampia scelta di registri. Può tradurre il reale a fantasia: “Io e h stiamo provando ad ammazzarci l’un l’altra con dei coltelli da burro”. Delirare: “Sono tutta schizzata di fango e mi sto immergendo in un fiumiciattolo limaccioso per provare a pulirmi, un’impresa folle. Ha qualcosa a che fare con h, è come se mi stessi preparando a montarlo, per risalire insieme a lui il fiume come un alligatore che porta in groppa il suo cucciolo”. O ricordare: “Da bambina parlavo così tanto e così veloce che sono dovuta andare da un logopedista perché le persone potessero capirmi meglio (…) Una parte di me si chiedeva se non fosse qualcos’altro che volevano aggiustare, quella che chiamavano eufemisticamente la mia bocca”.



Malattia di Lyme, frenulectomia, cerotti sulla bocca quando dorme, un massiccio posizionatore di gomma nera… diagnosi e terapie non funzionano e il resoconto suona perfettamente terrificante, ricordando altri infelici malati custodi però di un’onestà fino alla fine: da Questo buio feroce di Harold Brodkey, al terzo episodio di Caro diario di Moretti allo sconforto notturno di Marina Benjamin in Insomnia. I periodi brevi, i frequenti, non segnalati passaggi da sogno a realtà, da passato a presente, danno alle cento pagine di Pathemata un andamento ben più largo e pervasivo, simile al tempo trascorso in sala d’attesa, dove si finisce per capire di sé più del responso successivo.

Appellandosi alla nostra intuizione, le basta uno scatto per scrivere ciò che poi non finirà d’interrogarci: “Se potessimo – se potessi – infine comprendere, forse questa sensazione tremenda e tremendamente familiare infine svanirebbe, quella di qualcuno che dice di amarti e sembra desiderarti davvero ma sgasa via, c’è solo questa cosa che devo fare, è solo chi sono, un’ennesima creatura da assistere, pupille a spillo, disturbo da deficit di attenzione, l’ennesima amante, arteriosclerosi, avanza di ora in ora, su e oltre la linea dell’orizzonte, sparito”. E all’opposto c’è questo finale di una lettera da parte del padre, morto da poco, e che l’autrice scrive a sé medesima seguendo il consiglio della psicologa: “Prova a non provarci troppo, è solo una splendida corsa. Dico davvero. Ti amo sempre, papà”.

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