Il confine tra il lusso autentico e le sue imitazioni è sempre più sottile, mentre l’esperienza di acquisto si fa sempre più importante. In un mondo dove la qualità sembra passare in secondo piano rispetto all’apparenza, i brand del lusso e la loro esclusività rischiano di perdere la battaglia contro i prodotti contraffatti e la pressione dei mercati globali
Per la solita vecchia teoria che non si accettano le sfide sul campo nel quale il tuo avversario è più forte perché quello ti batte con l’esperienza e in questo caso si trattava di menzogne, la storia di Francesca Pascale con le Birkin regalate da Daniela Santanchè insegna che se non conosci gli elementi che distinguono un oggetto vero da uno falso finisci per farti respingere da un commesso desolato. Nessuno dei brand del lusso ha rilasciato una sola riga per zittire i produttori cinesi che, per ribattere all’aumento dei dazi del 145 per cento imposti da Donald Trump, un paio di settimane fa hanno infiammato TikTok spacciandosi per i “veri produttori” di borse di lusso “europeo”, un clamoroso fake dal quale emergeva un’unica notizia interessante, e cioè che a ovest del Portogallo e a est dei Balcani c’è qualcuno che in effetti ci percepisce come un’entità unica e coesa: “Europe”, un luogo dello spirito dove a un tassista romano che carica a san Pietro un tizio dell’Alabama viene chiesto quanto costi il viaggio fino a Parigi e quando lo viene a sapere trasecola perché come è possibile che la capitale d’Italia, il Paese della moda, sia così lontano. Per ribattere al produttore cinese sarebbe bastata l’osservazione che, poche ore prima dell’apertura del Salone del Mobile, l’amministratore delegato di Louis Vuitton, Pietro Beccari, ha detto a un gruppetto di giornalisti e analisti invitati a un tour privato del nuovo grande negozio nel Palazzetto Taverna Radice Fossati (via Montenapoleone 2, vi abitava Carlo Porta che un po’ con i sciur ce l’aveva e vedi il contrappasso, i milanesi improvvisati tendono a confonderlo con Palazzo Taverna Trivulzio, via Bigli 9, dove il 21 marzo del 1848 si formò il governo provvisorio di Milano e il maggiore Ettinghausen arrivò trafelato recando una proposta di armistizio da parte dell’odiato feldmaresciallo Radetzky): “Louis Vuitton è un marchio innanzitutto esperienziale e culturale; si visitano i nostri negozi anche solo per il piacere di farlo”. In ulteriore sintesi: il bello di comprare Vuitton quando anche i mercatini dell’usato traboccano di modelli classici autenticissimi è di varcare la soglia di una boutique fresca di pittura e godersi lo spettacolo di sé stessi che ci si aggira e ci si fotografa e si sceglie accolti da una signora elegante e sollecita.
I cinesi, per ribattere all’aumento dei dazi, un paio di settimane fa hanno infiammato TikTok dicendosi i “veri produttori” di borse di lusso “europeo”
Il lusso di comprare real e non fake è appunto “the experience”, mantra del decennio e di un marketing ormai un po’ a corto di cartucce in un mondo che non ordina più in pezzo unico le saliere di Benvenuto Cellini e l’abito da ballo ricamato a mano in due anni di lavoro come l’imperatrice Eugenia, ma che in genere si accontenta del suggello del brand e, oggi che il brand non è più sufficiente, anche e solamente di sentirsi festeggiato come Francesco I di Francia che ordinava la saliera. La differenza è il calice di champagne offerto e la foto in camerino, mentre una tela cerata è una tela cerata ovunque, che la producano meravigliosamente nella fabbrica originaria ad Asnières, stampata più o meno bene in Cina o davvero male come quei disperati della fabbrica Vuitton inaugurata cinque anni fa in Texas che, non riuscendo a raggiungere gli standard qualitativi minimi accettabili dalla casa madre perché non ci si improvvisa artigiani d’eccellenza, mandano al macero circa il quaranta per cento della produzione come ha denunciato Reuters, cosa che Trump non aveva certamente calcolato quanto ha iniziato a vagheggiare di autarchia ma Bernard Arnault certamente sì ed è plausibile che la contropartita per quella montagna di perdite sia comunque un attivo.
L’experience di oggi è un’attività che si consuma in fretta, nei tempi di un video su TikTok, anche perché i tempi delle tre canoniche prove di un abito su misura sono superiori non solo a quelli di cui possa godere il cliente medio della moda di oggi. Quando fai acquisti da Hermès c’è qualcuno che si produce in racconti genere Mamma Oca sui pascoli del Limousin e delle altre dieci regioni dove vivono le mucche dalle quali, un giorno, verrà ricavata la tua preziosa borsa ed è forse per questo che certe tizie sbrigative comprano a prezzo moltiplicato per otto sul mercato secondario, siti come il celebre e pregiatissimo 1stdibs dove si trovano capi Dior epoca John Galliano o del fondatore a 60 mila euro e Birkin a 48 mila, ma è chiaro che, cuoio grasso o meno, rifiniture in argento o cromate come dai rubinettai di Omegna, chi compra una Birkin contraffatta, anche benissimo, in Cina, al mercato di Istanbul o sotto la tenda del Twiga, sa che si priva dell’inchino del portiere gallonato e di tutto il resto del pacchetto, insomma prende consapevolezza di essere un cliente surrettizio, una serie B, insomma un fake.
Chi compra una Birkin contraffatta prende consapevolezza di essere un cliente surrettizio, una serie B, insomma un fake
Questo aspetto, fondamentale negli anni della visibilità purchessia purché social, spiega anche il giubilo con il quale legioni di creator, evoluzione degli influencer ormai caduti in disgrazia che alle didascalie aggiungono il copia-incolla dei comunicati e che per questo ritengono di poter competere con Suzy Menkes, hanno accolto i video dei produttori cinesi e le loro offerte di Birkin a mille dollari. Gente incapace di distinguere una cucitura a mano da una a macchina orgogliosa di annunciare di “averlo sempre saputo”, di essere pronta a “smascherare e sbertucciare la moda” come i “media ufficiali non faranno mai”, che peraltro è anche il principio sul quale, per un decennio, miliardi di persone hanno creduto alle voci degli influencer, pensando che agissero per spirito caritatevole, in difesa dei consumatori, e non come testimonial pagati o, non di rado, come agenti di commercio.
Come è facilmente intuibile, questa animosità nei confronti della moda e del sistema dei brand non ha origini recenti, già una grande firma del giornalismo di moda anni Settanta come Pia Soli aveva dedicato al fenomeno dello stilismo emergente un libro dal titolo profetico, “Il genio antipatico”, e si intreccia strettamente con la storia del consumo occidentale di beni voluttuari e con la forte accelerazione che questo ha subito negli ultimi due decenni a fronte della competizione sempre più serrata fra i due grandi conglomerati del lusso, Lvmh e Kering, e all’aumento esponenziale dei prezzi, certamente influenzato dalla crescita dei costi delle materie prime ma non giustificato nei suoi multipli. Che entrambe le due multinazionali di riferimento stiano perdendo quota dopo la forte impennata seguita al periodo pandemico è un aspetto perfino marginale rispetto alle dinamiche che si sono innescate nel settore nell’ultimo anno, e che comunque non riguardano tutti i titoli del lusso. Lvmh ha annunciato infatti un primo trimestre in calo del 2 per cento con un fatturato a 20,3 miliardi di euro e la divisione moda e pelletteria in diminuzione del 4 per cento, mentre Kering due giorni fa ha dichiarato un calo delle vendite del 14 per cento a 3,88 miliardi, appesantite da Gucci (“voglio che sia un marchio pieno di gioia”, mi aveva detto la deputy ceo del gruppo Francesca Bellettini, incontrata durante il Salone, e pare che gli investitori la pensino allo stesso modo, avendo lasciato il rating hold al titolo, in attesa dell’arrivo di Demna Gvasalia alla direzione creativa), ma Moncler, Prada, Brunello Cucinelli ed Hermès hanno segnato tutti dati in crescita nello stesso periodo, con il brand della famiglia Dumas-Hermès che ha addirittura superato Lvmh in capitalizzazione e Cucinelli che ha aumentato ancora una volta a doppia cifra il proprio giro d’affari, in una percentuale pressoché identica del dieci per cento negli Usa, in Europa e in Asia.
La Cina si è resa conto che per i brand americani dello sport e casual sarà più conveniente spostare la produzione in Turchia o direttamente in Europa
E’ dunque ovvio che in questo scenario opposto fra marchi competitori nello stesso segmento giochino fattori estranei ai dazi, ai sommovimenti politici e a tutti i fattori che i consigli di amministrazione vergano sulle note a margine dei bilanci, così come è evidente che i filmatini cinesi diffusi su TikTok avessero lo scopo di destabilizzare un sistema certamente imperfetto, ma che la politica daziaria di Trump rischia di far esplodere. La Cina, che negli anni ha riqualificato la propria produzione da bassa a media, divenendo un interlocutore anche credibile per quella fascia di marchi di lusso abbordabile come Coach o Guess, si è infatti subito resa conto che, a meno di un alleggerimento delle imposizioni, per i brand americani dello sport e dell’abbigliamento casual di marca, vedi Nike, ora sarà più conveniente spostare la produzione in Turchia o direttamente in Europa, come in Slovenia o nella Repubblica Ceca già all’avanguardia nelle calzature, mentre per converso i brand dell’ultra fast fashion cinese Temu e Shein hanno già dovuto alzare i prezzi, divenendo meno attraenti per quella fascia di mercato che continua a cambiare guardaroba come se non ci fosse un domani e anzi favorendolo, infischiandosene cioè della sostenibilità e delle condizioni di lavoro di chi produce gli abiti che indossa, tema peraltro già sceso agli ultimi posti nella scala delle priorità anche fra i grandi brand, a fronte della crisi.
La creatività agitata dai brand del lusso occidentale inizia a essere sempre meno evidente, soffocata com’è alla nascita da legioni di uomini marketing
Se le imposizioni statunitensi restassero quelle dichiarate fino a poche ore fa e non ancora riviste nonostante le reciproche aperture, i produttori cinesi dovrebbero trovare spazio nell’unico segmento che, vedi le dichiarazioni serene degli azionisti di Hermès e Prada e Cucinelli (“te lo devo dire, a me i dazi non preoccupano neanche un po’”, osservava l’altra settimana nell’aula magna della Vanvitelli, ancora in toga e tocco, dopo il conferimento del dottorato di ricerca in architettura, il nuovo di una lunga serie che una delle nipoti definisce “i trofei del nonno”), non stia subendo contraccolpi, che è quello del lusso non solo riconosciuto ed effettivo, ma anche percepito come tale. Convincere che comprare Made in China sia identico a comprare Made in Europe le masse degli statunitensi che ritengono Parigi sia la capitale dell’Italia spacciando prodotti contraffatti per veri deve essere sembrato un gioco da ragazzi, e in fondo e per certi versi non è nemmeno una falsità totale. Se è vero che la Cina, nonostante abbia sviluppato propri marchi molto noti anche in Italia come Hui o Giada, non può ancora vantare brand, creatività e strategie adeguate ad attaccare l’Europa e gli Usa sul terreno del lusso, volessimo andare a vedere quali brand del lusso o della fascia media della moda europea si riforniscano di tessuti cinesi, alla lista non mancherebbe nessuno, così come è vero che per troppi anni, la normativa europea sul Made in abbia consentito nefandezze e giochini di ogni tipo ai produttori meno trasparenti e che la stessa creatività agitata dai brand del lusso occidentale inizi a essere sempre meno evidente, soffocata com’è alla nascita da legioni di uomini marketing timorosi di perdere il bonus di fine anno e dunque fatalmente destinati a perderlo, perché nella moda non c’è come non rischiare per ritrovarsi a terra.
Lo scossone dei dazi dovrebbe consigliare a Bruxelles di rivedere le disposizioni in senso più restrittivo e a chi si occupa di brand di lavorare meglio, seriamente, sulle leve dell’innovazione. Sarà un caso, ma anche fra i grandi conglomerati della moda, i risultati migliori sono arrivati dalle maison dalle quali meno ci si aspetta in termini di massificazione e di fatturati da due miliardi: Bottega Veneta, Celine. I marchi dove il direttore creativo non deve litigare ogni giorno con l’ufficio merchandising, e dove copiare, per la Cina e TikTok è non solo difficile, ma inutilmente dispendioso.