Il mercato delle pubblicazioni del settore è vittima di vere e proprie strategie predatorie organizzate, in cui si elimina ogni freno editoriale che possa rallentare il flusso di denaro. Per limitare i rischi per le istituzioni accademiche, bisogna tornare a una comunicazione responsabile
Le distorsioni introdotte dal mercato nella pubblicazione scientifica non sono un effetto collaterale: sono ormai un elemento predominante nel sistema. Chi, come me, si occupa da anni di integrità scientifica, sa quanto la pressione a pubblicare, la competizione per i fondi e la bulimia del sistema bibliometrico abbiano trasformato la comunicazione della scienza in un ecosistema ad alta entropia, dove l’informazione validata convive con il rumore, e dove la reputazione di una rivista può essere svalutata nel tempo di una compravendita societaria. Un articolo pubblicato su Nature è l’ennesima dimostrazione che il sistema delle riviste scientifiche è vulnerabile non solo agli abusi interni, ma anche a vere e proprie strategie predatorie organizzate.
Il meccanismo descritto è semplice e brutale: alcune società commerciali, con sede in paesi dove il controllo giuridico e regolatorio è debole o inesistente, acquistano riviste scientifiche precedentemente rispettabili, ne conservano per un certo periodo l’apparenza formale (titolo, Issn, talvolta anche parte del comitato editoriale), ma ne cambiano radicalmente la gestione. Il nuovo modello non mira alla qualità, né alla selezione rigorosa degli articoli, ma alla produzione in serie: si moltiplicano i numeri pubblicati, si accettano articoli fuori tema, si aumentano drasticamente le Apc (Article Processing Charges, cioè le tariffe per pubblicare), e soprattutto si elimina ogni freno editoriale che possa rallentare il flusso di denaro. Non si tratta, quindi, di “riviste predatorie” nel senso tradizionale del termine, ma di riviste “snaturate”, svuotate del loro ruolo originario, e riempite con materiale pubblicabile solo a pagamento, spesso senza peer review autentica.
I nomi delle società coinvolte – tra cui Oxbridge Publishing House, Open Access Text, Jcf Corp, e Intellectual Edge Consultancy – non dicono molto a chi non frequenta questo settore, ma sono ben noti a chi si occupa di watchdogging scientifico. Una delle tecniche più insidiose è quella del “journal hijacking 2.0”: l’acquisto legale di una rivista, non la sua imitazione fraudolenta (come nei casi classici di furto di identità editoriale), ma la sua appropriazione tramite acquisizione commerciale. Ciò rende molto difficile, per gli enti bibliometrici e per gli stessi autori, capire cosa stia accadendo fino a che il danno non è già fatto.
Le conseguenze sono gravi. Alcune di queste riviste, almeno inizialmente, restano indicizzate in Scopus e Web of Science, mantenendo l’imprimatur che le rende appetibili per studiosi sotto pressione — in particolare quelli provenienti da contesti accademici dove pubblicare è condizione per l’avanzamento di carriera o per ottenere fondi. L’articolo di Nature riporta che più di 80 riviste acquistate da uno dei gruppi analizzati sono state rimosse dai principali database, ma solo dopo una lunga indagine. E nel frattempo, centinaia di articoli – molti dei quali di bassa qualità, ma apparentemente “peer-reviewed” – sono già entrati nel circuito citazionale, inquinando la letteratura con contenuti difficilmente reversibili.
Non è un caso isolato. Negli ultimi anni si è assistito a una proliferazione di modelli editoriali che sfruttano le falle del sistema: dai conglomerati di riviste open access che offrono “pubblica e paga”, agli special issues gestiti da editor esterni con pochi scrupoli, fino alle piattaforme che offrono pacchetti di pubblicazione garantita, revisione lampo e DOI in 48 ore. Tutto questo accade perché il mercato lo consente: perché non esistono regolazioni globali sul comportamento editoriale, e perché le metriche accademiche – basate su numeri di pubblicazioni e fattori d’impatto – premiano l’apparenza più della sostanza.
Il caso documentato da Nature è emblematico anche per un altro motivo: mostra quanto la percezione di qualità scientifica sia ancora oggi affidata a simboli esterni – una sigla, un database, un sito ben fatto – più che a una reale verifica del contenuto e del processo editoriale. Ma il vero problema non è solo la vulnerabilità tecnica del sistema. È l’accettazione passiva, da parte di molte istituzioni accademiche, di questi strumenti come base per le valutazioni. Finché un articolo pubblicato in una rivista con fattore d’impatto sarà automaticamente considerato “meritevole”, a prescindere da come quella rivista funzioni oggi, ci sarà sempre un mercato per queste forme di degrado editoriale.
Per contrastare questo fenomeno, servono strumenti più robusti. Ma soprattutto serve un cambiamento culturale. La pubblicazione scientifica deve tornare a essere un atto di comunicazione responsabile, non un passaggio burocratico o un investimento a rendimento accademico. Servono comitati etici che valutino le riviste anche dopo la pubblicazione, e non solo al momento della sottomissione. Servono archivi pubblici trasparenti sulle proprietà editoriali e sulla storia delle riviste. E serve una nuova alfabetizzazione scientifica, anche tra gli scienziati stessi, per riconoscere quando una rivista ha cambiato pelle. Altrimenti, continueremo a scoprire – troppo tardi – che ciò che sembrava scienza era soltanto un altro prodotto di mercato, confezionato con le insegne del sapere, ma privo della sua sostanza.