Il Pd dice sì al Mercosur: “È un accordo strategico”

Per il responsabile Esteri Provenzano “l’apertura all’America latina ha un valore geopolitico”. La svolta dem, divisiva a sinistra, è una necessità dopo i dazi di Trump, ma anche un’opportunità per mettere in difficoltà il governo Meloni

L’ondata di dazi imposti, all’Europa e a tutto il mondo, da Donald Trump ha rilanciato a sinistra, in parte per reazione e in parte per convinzione, le ragioni del libero commercio. Già il responsabile Economia del Pd Antonio Misiani, qualche settimana fa sul Foglio, si era detto favorevole all’accordo commerciale tra Europa e Mercosur. Ma ora arriva il sigillo ufficiale del responsabile Esteri del partito: Peppe Provenzano.

“La svolta protezionista di Donald Trump rende forse più necessaria l’approvazione dell’accordo con il Mercosur, ma c’è comunque un valore strategico nell’apertura all’America latina” dice l’ex ministro per il Sud, che da tempo coltiva i rapporti politici del Pd con i paesi del Sud America e che, per questo, il Foglio aveva ironicamente definito il “vicesegretario dei due mondi”. L’obiettivo geopolitico per l’Italia e l’Europa è contrastare la “penetrazione della Cina, che è dovuta alla nostra assenza”. Provenzano, ricordando la tradizione del meridionalismo, non vede questa posizione liberoscambista come una svolta per il Pd. Ma in un certo senso lo è. Forse non per il Pd in generale, che in passato – in particolare Matteo Renzi – è sempre stato favorevole agli accordi di libero scambio conclusi (si pensi al Ceta con il Canada o all’Epa con il Giappone) e anche a quelli abortiti (come il Ttip con gli Stati Uniti ai tempi di Obama).

Ma è una svolta per questo Pd, che ha nei suoi vertici una visione più critica, se non apertamente ostile, a questo tipo di accordi. A partire dalla segretaria Elly Schlein, che nel 2017 al Parlamento europeo votò contro il Ceta, l’accordo commerciale Ue-Canada fatto sul modello di quello con il Mercosur, con gli argomenti classici di chi a sinistra si oppone ai free trade agreement: “Un modello vecchio di liberalizzazione degli scambi, che ha contribuito a produrre gravi storture nel commercio globale e ha avuto conseguenze disastrose in termini di aumento delle diseguaglianze”, diceva la segretaria del Pd all’epoca, motivando il suo no. Insieme a lei, tra i dissidenti del Pd che votarono contro il Ceta, c’era Brando Benifei che poi è stato capo delegazione del Pd a Strasburgo. E anche l’attuale capo delegazione al Parlamento europeo, Nicola Zingaretti, allora presidente della regione Lazio, secondo cui il Ceta significava “commercio ingiusto senza regole”. Posizione identica della Cgil, all’epoca guidata da Susanna Camusso (ora senatrice del Pd), e adesso da Maurizio Landini che ha sempre ostacolato gli accordi di libero scambio. Una linea analoga è quella di tutto il movimento ecologista e no global a sinistra del Pd.

Provenzano è consapevole che l’opposizione a un accordo che abbatte il 90% dei dazi con i paesi del Sud America, con importanti benefici per l’export italiano, non arriva solo da settori “corporativi e conservatori”, ma anche da un pezzo della famiglia della sinistra come “il sindacato e il mondo ambientalista”. E per questo auspica una discussione nel partito e nella sinistra “senza liquidare le obiezioni critiche sull’agroalimentare e sugli standard sociali e ambientali”, sapendo però che “questo accordo è migliore di nessun accordo”. Perché se il Brasile si rivolge alla Cina, anziché all’Europa, è improbabile che per l’Amazzonia ci saranno standard ambientali più elevati.

All’orizzonte già si intravede l’ennesima spaccatura nel cosiddetto “campo largo” e nello spazio ancora più ampio delle opposizioni. Da una parte i liberali e centristi, da Renzi a Calenda passando per Marattin e +Eruopa, a favore; dall’altra parte i progressisti e ambientalisti, da Conte a Fratoianni e Bonelli, contrari. E il Pd in mezzo, lacerato al suo interno tra riformisti e progressisti, mentre la segretaria persegue la sua linea “testardamente unitaria” che tenta di tenere tutto insieme, dal M5s ai centristi. Sembra insomma l’argomento perfetto per litigare e, quindi, da evitare di affrontare.

Ma la scelta del Pd di prendere una posizione è dettata da una necessità e da un’opportunità. La necessità, come detto, è rispondere al protezionismo di Trump rilanciando il multilateralismo con una strategia di apertura condivisa in Europa con gli altri partiti socialisti, a partire da quello spagnolo che ha – per ovvi motivi storici e culturali – una forte proiezione sull’America latina. L’opportunità è data dall’indecisione del governo Meloni, che in Europa è l’ago della bilancia per l’approvazione o meno dell’accordo. Da un lato la destra italiana è storicamente contraria ai free trade agreement – dal Ceta al Ttip – spesso con argomenti analoghi a quelli dell’estrema sinistra; dall’altro il governo si è legato indissolubilmente agli agricoltori, l’unica categoria produttiva contraria all’accordo. L’imbarazzo della destra, che non riesce a dire di sì a un trattato di cui beneficerebbe tutto il Made in Italy colpito dai dazi dell’alleato politico Trump, era visibile in un convegno sul tema organizzato pochi giorni fa dal Cespi (Centro studi di politica internazionale), in cui i due rappresentanti del governo (Giorgio Silli) e del partito di Giorgia Meloni (Giangiacomo Calovini) non sono riusciti a esprimere una posizione né favorevole né contraria al Mercosur.

La linea chiara, espressa in quel convegno da Piero Fassino e dallo stesso Provenzano, può avvicinare il Pd alle imprese e ai ceti produttivi che finora hanno guardato con favore a Giorgia Meloni, spesso per mancanza di alternative.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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