Il feeling non è mai scattato fra Bergoglio e l’America yankee. Prima del gelido rapporto con Trump, c’era stata sintonia con Obama, ma senza particolari entusiasmi. Mentre la relazione con Biden è stata irreversibilmente segnata da crescenti tensioni a causa della posizione americana su Ucraina e Gaza
È stato il Papa con cui si sono confrontati tre presidenti degli Stati Uniti, con nessuno dei quali c’è mai stato particolare feeling. Ma Barack Obama, Joe Biden e Donald Trump non sono i soli americani a non essere riusciti a entrare in sintonia con Papa Francesco. Una larghissima fetta dei 53 milioni di cattolici adulti in America lo ha amato nei suoi primi anni di pontificato, in compagnia di tanti cristiani di altre denominazioni ed esponenti delle altre religioni che lo hanno seguito con ammirazione. Ma con il passare del tempo il rapporto si è fatto tiepido, poi freddo. Complici le divisioni nel paese, la polarizzazione che ha spinto tutti a schierarsi pro o contro chiunque (Papa incluso), l’incattivirsi della vita pubblica americana. Ma complici anche la scelta di Francesco di fare dell’America una periferia del cattolicesimo e in generale lo scarso entusiasmo dell’argentino Bergoglio – da buon sudamericano – per il mondo degli yanqui statunitensi. Francesco e l’America a stelle e strisce hanno vissuto dodici anni tormentati e il secondo mandato di Trump prometteva altre scintille.
Il Papa non ha mai chiarito l’esortazione pre-elettorale dell’anno scorso a scegliere “il minore di due mali” tra Donald Trump e Kamala Harris, ma chi gli è stato vicino ha pochi dubbi sul fatto che considerasse, in questo momento storico, più dannoso Trump di una esponente democratica che avrebbe proseguito il lavoro di Biden. La breve visita in Vaticano di J.D. Vance nel giorno di Pasqua era un tentativo di trovare uno spazio di dialogo da parte di un’amministrazione che, nonostante lo stato di salute del Papa, in queste settimane aveva già ricevuto segnali di forte irritazione da parte della Santa Sede. Il 6 gennaio, non a caso nel quarto anniversario dell’assalto a Capitol Hill, Papa Francesco ha nominato arcivescovo di Washington Robert McElroy, un cardinale californiano dell’ala liberal, nemico delle politiche trumpiane contro gli immigrati, aperto al dialogo con il mondo lgbtq, contrario a negare la comunione ai cattolici pro choice (un tormentone utilizzato per anni dai cattolici conservatori contro il cattolico Biden). Una mossa che sapeva di sfida: mandare uno dei cardinali più progressisti d’America a guidare l’arcidiocesi della capitale pochi giorni prima dell’insediamento di Trump.
Un mese dopo è stata la volta della lettera del Papa alla Conferenza dei vescovi degli Stati Uniti, durissima sulle politiche del nuovo governo in tema di immigrazione. “Deportare persone – ha scritto Francesco – che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie”. Per il Papa, quella in corso in America è da considerare “una crisi gigantesca” contro la quale “la coscienza rettamente formata non può non esprimere un giudizio critico e il proprio disaccordo”. Non è mancata neppure una stoccata finale al cattolico di fresca conversione Vance, che nei giorni precedenti aveva provato a usare sant’Agostino per sostenere la politica americana sull’immigrazione e si è visto fare una lezione dottrinale dal Papa. Vance ha incassato con eleganza, ma a far trapelare l’irritazione della Casa Bianca è stato lo “zar” dell’immigrazione Tom Homan: “Il Papa ha un muro intorno al Vaticano, giusto? E perché noi non possiamo avere un muro a difesa degli Stati Uniti?”.
Quando Trump parteciperà ai funerali di Francesco in piazza San Pietro, probabilmente ripenserà al loro difficile rapporto di questi anni. Fa un po’ sorridere, a rileggerlo oggi, il tweet del 2013 con cui The Donald, all’epoca ancora solo un personaggio televisivo e un ricco costruttore newyorchese, salutava l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio: “Il nuovo Papa è un uomo umile, proprio come me, il che probabilmente spiega perché mi piaccia così tanto”. Quando poi, tre anni dopo, l’“umile” Trump era in piena campagna elettorale e prometteva di erigere il suo celebre muro al confine con il Messico, Papa Francesco lo gelò sul volo di ritorno da un viaggio in territorio messicano: “Una persona che pensa a costruire muri, dovunque essi siano, invece di costruire ponti, non è un cristiano”. Trump, che in quel momento corteggiava il voto dei cattolici conservatori insieme a quello degli evangelici, la prese malissimo: “Per un leader religioso, mettere in discussione la fede di una persona è vergognoso”. L’anno dopo arrivò una mezza tregua, con la visita in Vaticano di Trump da presidente, celebre per le foto diventate meme sui social con The Donald sorridente e il Papa serio e severo.
E’ negli anni della prima Amministrazione Trump che si è incattivito anche il rapporto tra la Santa Sede e buona parte dei vescovi cattolici americani, oltre che con la parte più conservatrice dei fedeli, che è stata decisiva nel mandare due volte Trump alla Casa Bianca. Durante il papato, Francesco ha nominato cardinali sei americani in linea con il suo magistero, ad alcuni dei quali ha affidato diocesi importanti come nel caso di Blase Cupich a Chicago, Joseph Tobin a Newark e McElroy a Washington. Nel frattempo, il Papa e la curia hanno combattuto intense battaglie culturali contro l’ala conservatrice americana, contro il cardinale Raymond Burke e il vescovo (mai creato cardinale) Charles Chaput, persino contro il network televisivo cattolico Ewtn, diventato una roccaforte conservatrice vicina al mondo Maga. Significativo delle tensioni in corso durante la prima Amministrazione Trump è stato un articolo della Civiltà Cattolica, firmato da due personaggi molto vicini al papa, l’allora direttore padre Antonio Spadaro e il direttore dell’edizione argentina dell’Osservatore Romano, Marcelo Figueroa, nel quale si descriveva una saldatura tra fondamentalismo evangelico e integralismo cattolico americani, per paventare l’avvento di un “ecumenismo dell’odio”. Le reazioni di una larga fetta di cattolici americani furono di dura indignazione e le tracce di quelle ferite sono ancora visibili: basta leggere le parole di cordoglio, freddine, che arrivano da esponenti conservatori come Robert George di Princeton o come l’ex ambasciatrice americana presso la Santa Sede Mary Ann Glendon.
Prima di Trump, con Barack Obama c’era stata più sintonia, soprattutto in politica estera. Con Biden c’è stata cordialità, con tensioni crescenti sul finale per colpa della posizione americana su Ucraina e Gaza. A Obama però il Papa aveva fatto il regalo nel 2015 della sua unica visita negli Stati Uniti (dove era atterrato solo dopo aver fatto tappa per quattro giorni, significativamente, a Cuba). Ma non era scattata una vera e propria scintilla tra Papa e presidente, nonostante da destra li si accusasse di eccessiva sintonia. Anche l’America aveva accolto Francesco con interesse, ma senza entusiasmi. Niente di paragonabile non solo alle sette straordinarie visite negli Stati Uniti di Giovanni Paolo II, ma neppure alla calorosa accoglienza riservata a Benedetto XVI nel 2008.
In quel viaggio del 2015, però, Francesco aveva chiarito bene la sua idea di cosa rappresentava per lui l’America. Lo aveva fatto nel discorso di fronte al Congresso, nel quale aveva riassunto la sua visione del paese in quattro personaggi: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Timothy Merton. Gli ultimi due, la giornalista dei poveri e dei diseredati e il monaco-scrittore trappista, erano in gran parte sconosciuti a senatori e deputati, ma tutti ascoltarono con attenzione il ritratto del paese che il Papa fece attraverso i quattro “rappresentanti del popolo americano” che aveva scelto. “Una nazione – disse il Papa – può essere considerata grande quando difende la libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla gente di ‘sognare’ pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro, frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo di Thomas Merton”.