L’incontro del 2016 tra il pontefice Bergoglio e il patriarca russo ha rappresentato l’espressione di una convergenza secolare nella visione di un cristianesimo universale. Il presidente russo Vladimir Putin non ha perso tempo a capitalizzarne i risultati
Papa Francesco entra certamente nella storia come il Pontefice più “russofilo” di tutti i tempi, non tanto per le sue opinioni e pronunciamenti su questioni drammatiche e controverse come la guerra in Ucraina e l’ordine mondiale multipolare, ma anzitutto per lo storico incontro all’Avana del 12 febbraio 2016 con il patriarca di Mosca Kirill, un evento sognato da molti suoi predecessori e in particolare da Giovanni Paolo II, che aveva sperato fino all’ultimo di potersi recare in Russia e riconciliarsi con la Chiesa ortodossa. Del resto, l’abbraccio tra Roma e Mosca realizzato da Francesco e Kirill a Cuba non ha rappresentato soltanto la volontà di singoli gerarchi delle due Chiese, ma l’espressione di una convergenza secolare nella visione di un cristianesimo universale, che i Papi di Roma impersonano dai tempi dell’apostolo Pietro, e i patriarchi russi da quando la Rus’ di Kyiv si era trasformata nella Santa Russia di Mosca ai tempi degli zar. I tentativi di riunire i russi alla Chiesa cattolica si sono succeduti nella storia fin da prima ancora della liberazione della Russia dal “Giogo Tartaro” dei secoli XIII-XV con le delegazioni di cardinali e messaggeri ai principi Aleksandr Nevskij e Ivan III, agli zar Ivan IV il Terribile e Boris Godunov, fino a quelli della dinastia dei Romanov e ai segretari del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, prima di giungere alle trattative con Boris Eltsin e Vladimir Putin.
L’istituzione del patriarcato di Mosca, organizzata da Godunov nel 1589, era stata la consacrazione dell’idea imperiale di “Mosca-Terza Roma”, ispirata dagli eventi seguiti alla catastrofe del crollo dell’impero bizantino con la conquista di Costantinopoli nel 1453. Da allora la Russia, unico regno ortodosso rimasto libero dall’occupazione ottomana, aveva sviluppato la concezione di una “missione universale” per la salvezza del cristianesimo e del mondo intero, minacciato dall’apocalisse degli infedeli “agareni”, i figli di Agar schiava di Abramo e madre di Ismaele, come venivano chiamati i musulmani nei tempi medievali. E i Papi di Roma, che dopo le riforme della fine del primo millennio ambivano a governare il mondo con il doppio scettro del potere spirituale e temporale, sentivano che senza la riunione con Mosca questo sogno non si sarebbe mai realizzato. Questo ideale di riconciliazione universale conobbe momenti cruciali nella storia moderna, dalla “Santa Alleanza” del Congresso di Vienna del 1815, quando il vincitore di Napoleone, l’imperatore Alessandro I, propose una visione dell’Europa unificata tra gli ortodossi russi, i cattolici austriaci e i protestanti prussiani, fino alla grande visione della “Russia e la Chiesa universale” guidata dal papa di Roma e dallo zar di Mosca, immaginata dal filosofo slavofilo Vladimir Solov’ev alla soglia del XX secolo, che produsse una forte impressione sul papa Leone XIII, tanto da introdurne alcuni concetti nell’enciclica “Rerum Novarum” del 1891, da cui ebbe origine la Dottrina Sociale della Chiesa cattolica nella ricerca di una “terza via” tra oriente e occidente. Il Vaticano cercò quindi di trovare vie di dialogo e ricomposizione delle relazioni con l’Unione sovietica fin dai primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, culminate nella Ostpolitik vaticana degli anni 60 dopo il Concilio Vaticano II, di cui papa Bergoglio è stato un erede molto esplicito non solo con la Russia di Putin, ma anche con la Cina di Xi Jinping.
Il Papa polacco Giovanni Paolo II, grande conoscitore dei dinamismi del mondo comunista e post-comunista, ha ristabilito le relazioni diplomatiche con Mosca nel 1990 con l’invio del nunzio apostolico, il barese mons. Francesco Colasuonno, che nel 1991 ha organizzato le nomine dei nuovi vescovi delle amministrazioni apostoliche di Mosca (il bielorusso mons. Tadeusz Kondrusiewicz, oggi a riposo in Bielorussia), di Novosibirsk (il russo-tedesco Josiph Werth, ancora in carica) e di Karaganda in Kazakistan, allora ancora Unione sovietica (il polacco Jan-Pawel Lenga, oggi a riposo in Polonia), oltre ad alcune nomine in Ucraina, che stava definendo la sua indipendenza da Mosca. Negli anni 90 della “rinascita religiosa” in Russia, sotto la guida di questi vescovi-amministratori sono state riaperte oltre 300 parrocchie cattoliche in Russia e Kazakistan, dove in seguito sono stati nominati anche i vescovi di Alma-Ata e dell’attuale capitale Astana, e la Chiesa cattolica in Russia sembrava aver ritrovato la propria dimensione di “anima occidentale della Russia”. Le chiese ricostruite, o sostituite con nuovi edifici, erano i luoghi della devozione dei cattolici polacchi, lituani e tedeschi della Russia zarista, quasi completamente cancellati nei tempi sovietici, ma che nella nuova Russia post-sovietica fungevano da punti di riferimento non solo per i discendenti delle etnie di tradizione latina, ma anche per i tanti russi che cercavano di riscoprire l’eredità religiosa di tutte le Chiese storiche della Russia.
Con la svolta putiniana del 2000, anno della prima presidenza dell’attuale nuovo zar ortodosso, le aperture di Giovanni Paolo II furono considerate come atti ostili di proselitismo, e le relazioni con la Santa Sede giunsero a una fase di stallo e “congelamento” nel 2002, quando le amministrazioni apostoliche, che si erano sdoppiate con le nuove strutture di Saratov nella Russia meridionale e di Irkutsk in Siberia, furono elevate al rango di diocesi, decisione che fu interpretata da Mosca (sia dal patriarcato ortodosso che dalla politica) come un “tentativo di invasione occidentale” da cui difendersi, anticipando la retorica aggressiva degli ultimi anni. Alcuni vescovi e sacerdoti furono espulsi, e il viaggio papale in Russia diventò una chimera irrealizzabile; papa Wojtyla compì uno dei suoi ultimi viaggi apostolici in Ucraina nel 2001, di ritorno dall’Armenia, suscitando ulteriori reazioni stizzite da parte dei russi. Il 6 novembre del 2002 il Vaticano nominò un nuovo nunzio, il romano mons. Antonio Mennini, noto per aver ascoltato l’ultima confessione di Aldo Moro durante il sequestro ad opera delle Brigate Rosse. Egli rimase a Mosca per due mandati fino al 2010, gestendo la fase di “guerra fredda” tra Vaticano e Patriarcato, che nell’agosto del 2004 vide la restituzione dell’antica icona della Madonna di Kazan, che Giovanni Paolo II aveva sperato di restituire personalmente al patriarca Alessio II, e che invece fu riportata dal cardinale Walter Kasper nella cattedrale della Dormizione del Cremlino, alla presenza di pochi funzionari e senza alcuna comunicazione alla stampa russa. Tre anni dopo, nell’ottobre del 2007, dopo la scomparsa di Karol Wojtyla, Mennini ottenne la sostituzione del vescovo “proselitista” Kondrusiewicz con l’italiano Paolo Pezzi, tuttora in carica nella sede della Madre di Dio a Mosca e sottomesso al controllo stringente delle strutture statali e patriarcali.
Negli anni del pontificato di Benedetto XVI (2005-2013) le relazioni con Mosca rimasero sempre piuttosto limitate, anche se la statura intellettuale del grande teologo Joseph Ratzinger era rispettata dagli ortodossi russi per la sua autorità di difensore della dottrina tradizionale, vista come la dimensione più importante soprattutto dal metropolita Kirill (Gundjaev), divenuto patriarca all’inizio del 2009 e tuttora in carica. L’attuale patriarca ha più volte invocato l’unione di ortodossi e cattolici nel contrastare le nuove forme di secolarismo contemporaneo, e la fermezza nell’affermazione dei “principi non negoziabili”, interpretata con grande passione in quegli anni dalla Chiesa cattolica in Italia sotto la guida del cardinale Camillo Ruini, era vista come un modello a cui ispirarsi dallo stesso Kirill. Ancora da metropolita, del resto, egli aveva fatto approvare nel 2000 al Concilio giubilare di Mosca una versione della Dottrina Sociale della Chiesa Ortodossa che proponeva proprio la difesa dei “valori tradizionali” con l’aiuto dello stato sovrano contro gli influssi negativi dall’estero, di fatto il programma politico del nuovo presidente Vladimir Putin.
La vicenda delle dimissioni di Benedetto XVI, che ha suscitato perplessità e resistenze in parte del mondo cattolico, è stata vista dai russi con gli occhiali speciali dei “veri cristiani” nei confronti del decadente mondo cattolico. La rinuncia al trono pontificio suggerisce infatti un distacco dalle tradizioni, che in Russia fa ricordare il “tradimento” dell’ultimo zar Nicola II, dimessosi dal suo “ruolo sacro” a marzo del 1917 dopo la prima “rivoluzione di febbraio” con la rivolta delle donne di Pietrogrado che chiedevano il pane, che portò infine a quella bolscevica di ottobre. A lungo gli ortodossi, in Russia e all’estero, si sono rifiutati di riconoscere il martirio dello zar, poi proclamato proprio nel Concilio del 2000 come “santo protettore” della nuova Russia ortodossa. L’elezione di Papa Francesco nel 2013 lasciava quindi ai russi la sensazione della conferma del proprio ruolo di unici difensori del vero cristianesimo, e anche se veniva a mancare la figura del “papa tradizionalista” Ratzinger, il patriarca di Mosca poteva comunque attribuirsi una superiorità dovuta all’elezione precedente, che cancellava lo stato di “fratello minore” tra i massimi gerarchi della Chiesa nonostante la sua più giovane età (Kirill è del 1946, mentre Bergoglio era nato dieci anni prima). Oltre all’incertezza sulla canonicità della sua ascensione alla sede pontificia, giocava a favore dei russi anche la sua provenienza dall’America latina, una parte del mondo considerata certamente più “amichevole” della Polonia wojtyliana e della Germania ratzingeriana, rappresentanti degli avversari occidentali.
La prima visita di Vladimir Putin a Papa Francesco ebbe quindi luogo pochi mesi dopo la sua elezione, a novembre del 2013, quando il presidente russo era già in piena mobilitazione per contrastare l’ordine mondiale “unipolare” di dominio americano. Negli anni precedenti la Russia aveva spento le pretese occidentaliste della Georgia, sostenendo la rivolta delle repubbliche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud, e si apprestava a celebrare la sua nuova visione del mondo nelle Olimpiadi invernali di Soči proprio a fine 2013, quando poi scoppiò la rivolta dell’Euromaidan di Kyiv, inizio del conflitto che dall’Ucraina si è esteso al mondo intero. Quando Putin giunse in Vaticano per omaggiare il nuovo papa argentino, la questione però non era ancora l’Ucraina, bensì la Siria, dove erano in corso i massacri che lo stesso Bergoglio aveva condannato anche in una lettera allo stesso Putin prima del G20 di settembre, un messaggio che i russi interpretarono come una chiara scelta di campo del nuovo pontefice.
L’appello a un “impegno comune ad adoperarsi per la pace nella regione” fu infatti visto come una “benedizione papale” all’ingresso della Russia in Siria, poi confermata durante l’incontro con Kirill all’Avana nel 2016. Putin intendeva presentarsi come il protettore dei cristiani nel Medio Oriente, e la consonanza con Bergoglio risultava anche più vantaggiosa della sintonia “tradizionalista” con Ratzinger, ponendo un freno autorevole all’ennesima azione militare americana. Nel colloquio in Vaticano non sono mancate, del resto, le comuni dichiarazioni sulla difesa e la promozione dei valori della dignità della persona, della tutela della vita e della famiglia. Si è dunque creato un clima diverso, superando le diffidenze del decennio precedente e tornando alla cordialità dei tempi del primo incontro papale con un leader moscovita, quello tra Giovanni Paolo II e Mikhail Gorbačev il 1° dicembre del 1989.
Putin non ha ripetuto gli inviti eltsiniani al papa a visitare la Russia, ma già dall’incontro del 2013 si capiva che sarebbe stato possibile un abbraccio col patriarca, almeno in “campo neutro”, tanto più che Francesco aveva elogiato davanti al presidente russo la “comunionalità” (in russo la sobornost) degli ortodossi, che avrebbe dovuto ispirare i cattolici come in seguito è infatti avvenuto con la proclamazione del “cammino sinodale”. Il papa ha donato a Putin un mosaico con la veduta dei Giardini Vaticani, quasi offrendoli alla disponibilità russa, e lo zar ha presentato una copia dell’icona della Madonna di Vladimir, famosa nella storia della Rus’ di Kyiv per aver indicato miracolosamente la strada al principe Andrej Bogoljubskij, che nel 1157 aveva trasferito la capitale da Kiev a Vladimir, preparando la futura ascesa di Mosca come nuova “città madre” di tutte le Russie.
Due anni dopo, a giugno del 2015, Putin tornò in Vaticano già in piena fase di conflitto con l’Ucraina, lasciando Papa Francesco ad aspettare per oltre un’ora. Era stato fatto un lungo lavoro diplomatico tra le due diplomazie, visto che la Russia già scontava l’isolamento a causa dell’annessione della Crimea, ottenuta infrangendo le regole del diritto internazionale e sotto una evidente occupazione militare. Questa volta il papa regalò a Putin un “angelo della pace”, e Putin replicò con un’altra versione della Madonna di Vladimir, quella che Stalin aveva fatto volare su Mosca durante l’avanzata nazista, alludendo al “nuovo nazismo ucraino” con cui la Russia era in pieno conflitto. Fu il primo contatto internazionale per la Russia dopo l’annessione della Crimea, e il Vaticano ribadì la necessità di “smettere con le violenze in Siria”, per la preoccupazione dei cristiani siriaci ad opera dei fondamentalisti islamici. Putin ha incontrato papa Francesco una terza volta, a luglio del 2019, prima del Covid e della guerra che hanno distrutto tutte le relazioni. Il presidente russo arrivò in questo caso al colloquio con il Pontefice rinfrancato dalla riammissione della delegazione russa all’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, dopo la sospensione del diritto di voto in seguito alle vicende crimeane, situazione oggi completamente superata dall’uscita di Mosca da ogni istituzione europea.