L’attacco di Trump e Vance alla libertà accademica non è una lotta contro il woke

Giustificare i ricatti politici agli atenei come reazione agli eccessi del “galateo woke” vuol dire dare una mano a chi vuole spegnere le università, per rifarle a propria immagine e somiglianza

Anch’io sono stato vittima di quelli che possiamo chiamare gli eccessi insopportabili e stupidi del “galateo woke”. Per esempio, dovendo presentare un seminario in Inghilterra, un responsabil* (non so se fosse un uomo o una donna) pretese di rivedere il comunicato con cui si annunciavano i contenuti della mia presentazione, e, siccome era dedicato alle paper-mills cinesi, richiese di modificare testo e seminario per non contrariare gli studenti cinesi dell’università ove avrei presentato i miei dati. Naturalmente, quando fui sul posto, e quando riferii loro la cosa, i cinesi locali si fecero crasse risate all’idea di essere stati trattati come “minoranza”, loro rappresentanti di una delle fette più ampie di umanità; ma intanto io avevo sperimentato bene questa insopportabile atmosfera di idiozia, travestita da tutela delle minoranze.

Ora, se io prendessi questo episodio — reale, assurdo, irritante — e lo usassi per giustificare quello che Trump e la sua amministrazione hanno fatto (o minacciano di fare) alle università americane, commetterei una serie di errori logici, politici e culturali, che conosco bene e che non intendo assecondare. Intanto, è vero, quella che ho vissuto era una situazione grottesca e frustrante. Ma una singola esperienza, per quanto significativa, non mi autorizza a dire nulla sulla diffusione sistematica di un certo modo di agire: mi parla di un caso, non di una regola. Se da lì traggo una diagnosi globale, e salto alla conclusione che serva un intervento politico autoritario per “ristabilire la normalità”, allora ho smesso di pensare. Sto semplicemente scambiando la mia esperienza personale per una legittimazione ideologica. Per studiare l’abuso di certe ideologie, non basta collezionare episodi: servono analisi ben fatte ed in grado di mostrare scala e caratteristiche diffuse di un ipotetico problema.

Fatta questa premessa, assumiamo pure che il mondo universitario e dell’educazione pubblica siano stati attanagliati davvero da un’insopportabile oppressione woke. Sarebbe forse possibile in questa ipotesi giustificare Trump, Vance e la loro accolita, dipingendo le attuali azioni dell’amministrazione Usa in tema di università e ricerca come una salutare misura di depurazione dagli eccessi Woke? Se lo pensassi, come ho detto, commetterei una serie di errori facilmente dimostrabili e particolarmente pericolosi.

Il primo errore sarebbe confondere la pressione ambientale con il controllo politico. Per quanto insopportabile, quello che ho subìto io è stato un tentativo ridicolo di censura preventiva da parte di un funzionario zelante e confuso, che voleva evitare problemi immaginari. Non era lo Stato che mi imponeva cosa dire. Non c’era un governo che minacciava l’università di tagliarle i fondi se non mi avesse zittito. Era conformismo, non coercizione. E chi non vede la differenza, o finge di non vederla, finisce per legittimare la vera coercizione, quella dall’alto, quella per decreto.

Il secondo errore è la fallacia del contrappasso ideologico: siccome ho visto una forma di conformismo progressista, allora accetto come rimedio il conformismo conservatore imposto dall’alto. Ma se la libertà accademica va difesa, allora va difesa da entrambi gli estremi. Non posso invocarla solo quando serve a difendere me e zittire gli altri. Se chiedo che un’università sia libera di lasciarmi parlare di paper mills cinesi, devo accettare che sia libera anche di invitare chi non mi piace. E se sbaglia, la correggo con l’argomento, non con il ricatto dei fondi pubblici. Altrimenti non sto difendendo l’autonomia: sto solo cambiando padrone.

Il terzo errore, il più pericoloso, è confondere la legittima critica con la richiesta di intervento di norme restrittive. Io posso denunciare l’atmosfera assurda che si respira in certi ambienti accademici. Posso ridicolizzarla, combatterla, smascherarne l’ipocrisia. Ma se da lì traggo la conclusione che il potere esecutivo debba intervenire a “normalizzare” le università, allora ho abbandonato il campo della libertà per entrare in quello del ricatto politico ai fini di disciplinare la comunità accademica. Ed è questo che sta succedendo con le nuove direttive politiche sull’istruzione superiore: lo Stato pretende di stabilire cosa è pluralismo, cosa è discriminazione, cosa è pensabile e cosa no. E lo fa non per proteggere la libertà di parola e di opinione, come fintamente dichiarano i nuovi burocrati, ma per imporre una nuova ortodossia, mascherata da neutralità.

In sintesi: se uso il mio episodio per denunciare l’idiozia del “galateo woke”, ho ragione. Ma se lo uso per applaudire un attacco alla libertà accademica sotto la bandiera della libertà accademica, allora sto facendo esattamente quello che critico: sto piegando un principio universale a un uso partigiano. E la cosa peggiore è che, così facendo, sto dando una mano a chi vuole spegnere le università per rifarle a propria immagine e somiglianza. Sarebbe come curare un raffreddore con la chemioterapia. E sapere di aver avuto ragione su un episodio non dà il diritto di avere torto su tutto il resto.

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