La Cgil chiama al referendum e S&P alza il rating dell’Italia anche per il Jobs Act
Non c’è un’iniziativa politica più sgangherata del referendum sul lavoro (e contro il Jobs Act) dell’8-9 giugno promosso dalla Cgil. In primo luogo per la distanza dei quesiti dalle condizioni reali del mercato del lavoro. Da mesi Maurizio Landini fa il giro di giornali e talk show parlando di una “precarietà” dilagante, ma i dati dell’Istat mostrano il contrario: gli occupati sono ormai abbondantemente sopra i 24 milioni, il record da quando esistono le serie storiche; il tasso di occupazione è pari al 63 per cento, il livello più alto di sempre (seppure il più basso d’Europa); la disoccupazione, invece, è al 5,9 per cento, il tasso più basso. Negli ultimi due anni ci sono 1 milione di occupati in più (2 milioni se si considera il punto più basso durante il Covid). Anche la qualità del lavoro è migliorata, se la si misura per tipologia di contratto: gli occupati a tempo indeterminato sono 16,45 milioni (record storico), con un aumento di oltre mezzo milione solo nell’ultimo anno. Gli occupati a tempo determinato, invece, nonostante l’aumento complessivo dell’occupazione, sono in calo: 2,7 milioni (-112 mila nell’ultimo anno e circa -300 mila rispetto ai 3 milioni pre-Covid).
In secondo luogo, il referendum contro il Jobs Act è un pessimo segnale verso l’esterno: nonostante un quadro globale complicato da guerre e dazi, nell’aumentare il rating dell’Italia a BBB+, S&P ha indicato proprio la “resilienza del mercato del lavoro”, che dipende dalla “flessibilità” introdotta dalle riforme, tra i punti di forza del paese: “L’occupazione continua ad aumentare, riflettendo i benefici delle passate riforme del lavoro, tra cui il Jobs Act 2014-2015”, scrive l’agenzai di rating. Un referendum sbagliato, che danneggerebbe la reputazione dell’Italia sui mercati internazionali contro una buona riforma fatta dal Pd. Solo l’attuale sinistra, a trazione Landini-Schlein-Conte, poteva imbarcarsi in una battaglia del genere, fallimentare nei propositi e, si spera, negli esiti. In fondo è una metafora di come Giorgia Meloni spesso riesca ad apparire credibile senza fare nulla.