Gli ultimi giorni di M.

Dal giubilo del popolino, alle bombe degli Alleati. Il quinto atto della collana di Scurati

Ne ero certo che il quinto e ultimo volume (M. La fine e il principio, Bompiani, 2025) sarebbe stato il più irrinunciabile della biografia di Mussolini cui Antonio Scurati ha dedicato dieci anni della sua vita. Da quando Amazon me lo ha consegnato alla metà di sabato 12 aprile fino al momento in cui ne ho divorato l’ultima pagina, a metà del giorno dopo, non sono riuscito a staccarmene un solo minuto. Quell’ultima pagina, lì dove Scurati ricorda che la senatrice ebrea Liliana Segre – unica sopravvissuta della sua famiglia – riceve ogni giorno duecento messaggi di odio antisemita, tanto che due carabinieri le fanno tutti i giorni da scorta. È come se quella storia che appartiene così profondamente a noi italiani non fosse finita affatto ottant’anni fa, il giorno in cui Mussolini fu abbattuto da una scarica di mitraglia sparata a bruciapelo da un oscuro partigiano comunista, e bensì continuasse allo stremo.


Non che la diade fascisti/antifascisti spieghi più nulla della odierna società italiana, solo che il marchio impresso da quella diade resta come impresso nella nostra pelle viva, nella nostra memoria, starei per dire nella nostra identità.


Il racconto di Scurati è puntato sugli ultimi mesi di storia del fascismo, a partire da quando le sorti della Seconda Guerra Mondiale apparvero segnate e dunque segnato fu il destino dell’ex socialista che il fascismo lo aveva creato e per oltre vent’anni ne era stato il Duce onnipotente, colui che poteva e decideva ogni cosa della nostra società, colui che aveva in punta alle dita il destino di ciascun fascista e di ciascun antifascista. E a non dire della venerazione che per lui nutriva “il popolino”, la gente qualunque, quelli che hanno bisogno di un “capo” da venerare. Nessuno di noi dimentica la foto dov’è ritratta la massima vergogna della storia italiana, la folla che a Piazza Venezia applaude entusiasticamente alla notizia che stavamo dichiarando guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Una vergogna che dura almeno sino alla tarda sera del 25 luglio 1943, quando un gruzzolo di primattori del Partito nazionale fascista puntò il dito contro un Mussolini che probabilmente non credeva ai suoi occhi che questo stesse accadendo. Che uomini come Giuseppe Bottai, Dino Grandi, Emilio De Bono, lo stesso Galeazzo Ciano suo genero, gli dicessero per la prima volta di no, che non volevano continuare a fare i compari di Adolf Hitler. E siccome Mussolini non era una bestia sanguinaria che cercava solo vendette, quella sera lui si sarebbe forse ritratto dalla tragedia italiana (leggi guerra civile) di cui era il responsabile. Non fosse che i nazisti cui si era alleato da dieci anni non se lo andarono a riprendere dall’isola di Ponza in cui lo aveva relegato un re che sceglieva per la prima e ultima volta di essere lui il gran capo di un’Italia di cui i bombardieri angloamericani avevano preso a fare strame. Tutto questo Scurati lo racconta ora per ora, personaggio dopo personaggio, episodio dopo episodio, frase solenne dopo frase solenne, e lo fa diventare un romanzo com’è impossibile ce ne sia un altro di pari intensità e drammaticità.



E a proposito dei personaggi da cui Mussolini sarà attorniato lungo una vita, Scurati è bravissimo nel narrare di ciascuno di loro tanto nel corso della narrazione generale quanto nei ritratti che ne fa in coda al libro. Personaggi quale Amerigo Dumini, il capintesta della squadraccia che mise a morte Giacomo Matteotti; quale Nicola Bombacci, quello che era stato socialista al pari di Mussolini, che gli si riavvicinò umanamente ai tempi di Salò e che lo pagò con la vita; quale Guido Leto, capo della polizia politica durante il Ventennio e ancora per tutta la durata di Salò, arrestato e incarcerato a Regina Coeli dopo il 25 aprile, assolto in corte d’Appello e reintegrato a pieno titolo nella vita civile fino alla morte nel suo letto, nel 1956; quale Orio Vergani, uno dei maggiori giornalisti italiani del Novecento, cantore dei più grandi eventi del regime, uno che dice di sì a Salò, uno dei pochi giornalisti a essere epurato all’indomani della Liberazione ma solo per poco dato che già nel settembre del 1946 la sua firma riappare sulle colonne del Corriere della Sera. E quanto alla barbarie non fu una prerogativa dei fascisti e di loro soltanto. Leandro Arpinati era stato sì fascista ma fondamentalmente era una brava persona tanto che si era ritirato a vita privata pur condividendo alcune delle idee di Mussolini. Un gruppo di partigiani andò a cercarlo e a ucciderlo a casa sua, e nell’occasione uccisero come un cane anche Torquato Nanni, che da socialista era stato a fianco di Arpinati e che gli era rimasto amico.

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