Le limitazioni imposte dall’esecutivo italiano stanno ostacolando la fusione tra le due grandi banche, generando incertezze sulla riuscita dell’operazione. Il gruppo Unicredit sta valutando la possibilità di un ricorso per tutelare la propria autonomia
“Impossibile prendere adesso una decisione definitiva su Banco Bpm”, così Unicredit ha risposto alle prescrizioni del governo Meloni sull’aggregazione con la banca milanese e per questo chiede un incontro chiarificatore a pochi giorni dall’avvio dell’offerta pubblica di scambio previsto il 28 aprile. Le condizioni poste da Palazzo Chigi, che ha fatto ricorso ai poteri di Golden Power con l’obiettivo dichiarato di tutelare “interessi strategici per la sicurezza nazionale”, sono andate oltre ogni aspettativa. Il commento sarcastico e a denti stretti che girava nel clima post pasquale di ieri tra alcuni operatori finanziari vicini alle manovre di risiko bancario era: “Se Orcel aveva per caso accarezzato l’idea di votare per la lista alternativa a quella di Donnet, all’assemblea di Generali gli sarà certamente passata”.
In effetti, i paletti di Roma all’ipotesi di fusione tra le due banche sono talmente stringenti da far sorgere il dubbio che chi ha pensato di metterli non abbia valutato fino in fondo le conseguenze sulle altre partite ancora in corso, in primis l’assemblea per il rinnovo della governance del Leone che si svolge domani. Oppure, sono state valutate e messe in conto pur di ostacolare la scalata di Unicredit a Bpm, vista da sempre come fumo negli occhi al Mef guidato da Giancarlo Giorgetti. Si dice, infatti, che un ruolo importante nel porre le condizioni a Unicredit sia stato svolto dal direttore generale, Marcello Sala. Alcuni giorni fa proprio il Mef aveva fatto sapere che si sarebbe espresso prima dell’assemblea proprio per evitare di interferire con le dinamiche di voto per il rinnovo della governance del Leone sulle quali già pesa un clima di tensione.
Sembrava un messaggio di distensione e di fair play istituzionale e invece è prevalsa la linea “dura” nei confronti di un’operazione che la Lega in modo particolare vuole fermare. Anche a costo di mettere questo governo nelle condizioni di forzare la mano con uno strumento come il Golden Power che in Europa è stato introdotto per impedire le scalate ostili dall’estero (soprattutto extra Ue) e non nello stesso paese. Come farà l’Italia a sostenere questa posizione sul piano europeo se dovesse aprirsi un contenzioso? Per i vertici della banca guidata da Andrea Orcel, è stato particolarmente grande lo stupore quando si è appreso che tra le prescrizioni deliberate dall’esecutivo, con l’opposizione di Forza Italia, ce n’è anche una volta a limitare l’attività della società Anima, sia nel mantenere un certo livello minimo di Btp in portafoglio (90 miliardi) ma ancor di più nel mantenere un determinato ammontare di investimenti nelle società quotate italiane.
Nei fatti tutto ciò vuol dire limitare il raggio di azione del nuovo potenziale gruppo a un mercato domestico. Ma inconciliabili sono state valutate da Unicredit anche la richiesta di uscire in soli nove mesi dalla Russia (cosa che comunque sta avvenendo) e il mantenimento del rapporto tra depositi e impieghi in Italia per cinque anni. Insomma, il governo italiano ha messo la seconda banca del paese, peraltro impegnata nella difficile scalata alla tedesca Commerzbank, di fronte a un vero diktat di protezionismo bancario che, su un piano più generale, rischia di rendere le regole del gioco imprevedibili per gli investitori di un paese che fa parte dell’Unione europea. La reazione di Unicredit è stata di prendere tempo buttando di nuovo la palla nel campo avverso, ma senza risparmiare critiche al governo quando dice che i paletti imposti “potrebbero danneggiare la sua piena libertà e capacità di adottare decisioni conformi ai principi di sana e prudente gestione in futuro”.
L’istituto ha anche eccepito che “l’uso dei poteri speciali in un’operazione domestica tra due banche italiane non è comune e non è chiaro perché non sia stato invocato per le altre operazioni simili attualmente in corso sul mercato italiano” (leggi, per esempio, Mps-Mediobanca). E la bordata finale che sembra confermare l’intenzione di un possibile ricorso giudiziario: “Le prescrizioni si prestano a diverse interpretazioni e appaiono non completamente allineate con la legislazione italiana e comunitaria, oltre che con le decisioni delle autorità regolamentari”. Quello a cui starebbe pensando Unicredit è di rivolgersi alla giustizia amministrativa (Tar) ma questa mossa, secondo le attuali normative, non consentirebbe il rinvio dell’ops su Banco Bpm che il 28 dovrà comunque partire. Nulla vieterebbe a Orcel di potersi ritirare anche durante il periodo di offerta, ma è evidente che sull’operazione peserebbe un alone di incertezza che potrebbe anche condizionarne l’esito. Dunque, le nozze tra Unicredit e Bpm sono ufficialmente entrate in un limbo da cui appare difficile uscire.