Come porre rimedio ai contratti di ricerca all’università

Se non si agisce in fretta, le posizioni a disposizione saranno tagliate più della metà. La cosa più urgente da fare è creare le condizioni che permettano agli atenei di emettere nuovi bandi, in modo da evitare una catastrofe che è già nell’aria

L’Università italiana e in particolare e soprattutto i suoi giovani studiosi più bravi – ma non solo loro – vive un momento difficile, che rischia di diventare difficilissimo. Il sistema, e con lui chi vi abita e chi cerca di entrarvi, soffre già per le conseguenze di un Pnrr dei cui errori e limiti sarebbe importante discutere. La crescita anomala di assunti a termine che oggi premono per entrare in blocco come “categoria” (i precari) rischia per esempio di danneggiare i migliori addottorati dei prossimi anni, che troveranno le porte chiuse, e di rallentare ingiustamente le carriere dei nostri migliori professori associati, che certo hanno già uno stipendio ma vedono frustrate legittime ambizioni. Soprattutto, tutti i giovani studiosi, quelli che usufruiscono di assegni di ricerca come quelli che aspirano a abbracciare la carriera universitaria, sono già vittima di una soluzione sbagliata – il “contratto di ricerca” – a un problema visto erroneamente solo in termini di precarietà, una soluzione voluta dalla precedente legislatura e sostenuta dai Cinque Stelle, dalla Cgil e, malauguratamente, da una parte del Pd.



La situazione rischia di diventare a breve, senza esagerazioni, catastrofica. Il contratto è infatti una posizione ispirata a princìpi errati e controproducenti, che fanno a pugni col funzionamento dell’Università e con la libertà accademica che ne è a fondamento. La sua ideologica impervietà alla oggettivamente difficile situazione concreta in cui vive tutto il paese – che non è quindi il frutto di complotti o scelte malvagie, anche se naturalmente gli errori pesano, eccome – si traduce inoltre in irresponsabilità e irrealismo che aggravano il male che ci si proponeva di combattere, vale a dire le difficoltà dei giovani studiosi e in particolare dei migliori tra loro. Per quanto riguarda i princìpi errati su cui si fondano, basti ricordare che i contratti sono per legge banditi solo su progetti di ricerca in essere e quindi ideati da ordinari e associati, privando i giovani studiosi di ogni autonomia. Questa scelta illiberale e contraria alla loro autonomia e iniziativa è confermata dalla natura della posizione, che la Cgil rivendica come “rapporto di lavoro pienamente subordinato”. Ciò vorrebbe dire in teoria introduzione del timbro del cartellino e di un occhiuto sistema di controlli sulle ricerche fatte, vincoli che per fortuna gli atenei stanno cercando di eliminare nei regolamenti attuativi. I contratti escludono inoltre categoricamente la possibilità di fare didattica, prevista invece dai vecchi assegni di ricerca entro un ragionevole tetto di ore annue. Un moralismo che vede solo il male ha pensato così di eliminare gli indubbi e riprovevoli casi di “sfruttamento” togliendo ai giovani studiosi la possibilità di insegnare la loro ricerca per un numero limitato di ore, impoverendo la loro esperienza e i loro curricula. Invece di perseguire il male si vieta così il bene.


Il contratto di ricerca è insomma l’importazione nell’Università del modello del lavoro dipendente, un’idea sbagliata in generale perché non riconosce la necessità e l’opportunità delle libertà accademiche e particolarmente gravida di potenziali conseguenze negative nel periodo che stiamo vivendo, attraversato da forti pulsioni autoritarie. Si potrebbe aggiungere che l’introduzione di questi contratti darebbe paradossalmente un forte contributo a quella “riduzione dell’Università a un’azienda” che i loro ideatori amano denunciare e cui hanno invece così dato una spinta, abituando i futuri professori universitari a concepirsi fin dall’inizio come, appunto, “lavoratori dipendenti”, con un’implicita, gravissima amputazione della loro autonomia. Uso il condizionale perché l’irrealismo con cui sono stati concepiti e i costi aggiuntivi che i contratti introducono (per bandirne uno occorre il doppio dei finanziamenti necessari all’apertura dei vecchi assegni di ricerca) in un momento di risorse queste sì precarie rischiano di farne delle posizioni rarissime. Verrebbe da dire per fortuna, se non fosse che il loro rappresentare l’unica posizione prevista per i giovani studiosi che hanno conseguito il dottorato comporta la chiusura quasi completa della loro possibilità di proseguire le proprie ricerche.



I dati che giungono dagli atenei sono impressionanti: se non si pone rimedio si prevede che le posizioni a disposizione saranno tagliate di ben più della metà, anche perché sarà più difficile trovare i maggiori fondi aggiuntivi necessari per integrare i contributi degli atenei (si può aggiungere che per far passare un istituto che costa il doppio del vecchio assegno si è subita una clausola vessatoria che limita la spesa destinabile ai contratti, senza neppure la possibilità di trasferire risorse da un capitolo all’altro del bilancio). I giovani studiosi devoti alle discipline umanistiche e a quelle legate alla ricerca pura soffriranno più degli altri, ma tutti patiranno. E se consideriamo la contemporanea fine dello stimolo artificiale generato dal Pnrr siamo di fronte alla possibilità di una riduzione drammatica delle prospettive offerte ai nostri giovani migliori. Sarebbe quindi indispensabile rivedere drasticamente le modifiche apportate nel 2022 alla legge 240, sopprimendo i contratti, ma è cosa difficile perché si tratta di un “milestone” del Pnrr. La soluzione è quindi affiancargli un’altra e migliore posizione, magari partendo dai contratti post-doc previsti nel Ddl 1240, sperando che la saggezza degli atenei finisca col preferirla. Nel concepirla occorre partire dal fatto che il periodo di accesso a una professione ambita da molti perché regala il grandissimo privilegio di una vita di relativa libertà, perseguimento della conoscenza e contatto coi giovani e col mondo, non può che essere segnato all’inizio da un’incertezza, piuttosto che da una “precarietà” (che è un modo sbagliato di guardare alla cosa, come se fosse un male da estirpare e non una fase necessaria), che è il tempo della selezione di quelli più adatti a fare questa vita. Si tratta quindi di un tempo da regolare, cercando di dare a tutti quelli che scelgono di viverlo le migliori condizioni possibili, facendo il possibile per far sì che solo i migliori riescano, ed evitando di ingannare o di sfruttare chi non ce la farà, per esempio stabilendo – come si è iniziato a fare – limiti definiti alla sua durata.



Questa nuova posizione (che eviterei di definire “contratto” per eliminare ogni ambigua affinità col lavoro dipendente subordinato) dovrebbe essere riservata ai soli dottori di ricerca e specializzati medici che hanno conseguito il titolo da meno di sei-sette anni, avere maggiori garanzie assistenziali e previdenziali di quelle previste dai vecchi assegni (che erano comunque già state potenziate), e non dovrebbe potersi prolungare per più di sei anni, per impedire che il tempo della necessaria selezione si trasformi in un rovinoso “precariato”. Sarebbe inoltre importante prevedere con chiarezza che questa posizione abbia due possibili canali di accesso: il primo riservato alla presentazione di progetti di ricerca da parte dei giovani studiosi, e sostenuto in generale con fondi di ateneo, istituzionali o ministeriali (per esempio bandendo ogni anno un concorso nazionale riservato ai Dottorati di ricerca per un certo numero di queste posizioni). Il secondo dovrebbe invece essere tagliato sulle esigenze dei grandi progetti di ricerca in corso nel paese. In entrambi i casi la posizione dovrebbe avere forti garanzie di libertà e prevedere la possibilità di svolgere un tetto massimo di ore di didattica legate alle ricerche svolte, di regola all’interno dei Dottorati di ricerca.



Sarebbe infine opportuno introdurre dei sostegni per chi dopo alcuni anni in questa posizione, in cui ha accumulato esperienze preziose, non riesce ad accedere all’Università, per esempio riconoscendogli un punteggio per l’ingresso nella pubblica amministrazione in ruoli legati alla sua specializzazione. E sarebbe cosa santa, oltre che logica e giusta, dare più valore al titolo di dottore di ricerca nei concorsi pubblici, dove il suo peso è spesso irrisorio. La cosa più urgente da fare per i nostri giovani migliori è però creare questa nuova posizione: ne va del loro futuro e di quello della nostra Università e della libertà accademica e di ricerca, e bisognerebbe farlo al più presto, per permettere agli atenei di emettere bandi che evitino una catastrofe che è già nell’aria. Poi certo si dovrà continuare a combattere per trovare più risorse per la ricerca e i giovani che la abbracciano, ricordando a tutti che l’avanzamento delle conoscenze è forse il principale degli strumenti che ci permettono di difendere le conquiste degli anni “miracolosi” dello sviluppo.

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