La frattura fra Washington e Pechino negli ultimi giorni si è fatta ancora più profonda. Le nuove aree di influenza
La frattura fra Washington e Pechino negli ultimi giorni si è fatta ancora più profonda, nonostante le rassicurazioni del presidente americano Donald Trump sul fatto che un accordo con il leader cinese Xi Jinping verrà trovato presto. La confusione dentro all’Amministrazione americana non fa che aumentare la frustrazione da parte cinese, che nel frattempo sta cercando di capitalizzare il caos trumpiano. Lunedì il ministero del Commercio cinese ha fatto sapere di opporsi “fermamente a qualsiasi parte che raggiunga un accordo a spese degli interessi della Cina”: un avvertimento a tutti quei paesi che, nella logica di Pechino, preferiranno un “appeasement” con l’America di Trump subendo il ricatto dei suoi dazi, piuttosto che continuare a costruire una relazione con la Cina. La partita ormai non riguarda più soltanto i dazi e il commercio, ma l’influenza politica internazionale.
Era stato il presidente americano, pochi giorni fa, a dire a Fox News che “forse” alcuni paesi più aperti con Pechino saranno costretti a scegliere, prima o poi, fra America e Cina. I dazi tra i due paesi hanno raggiunto il 145 per cento sulle esportazioni cinesi verso l’America e il 125 per cento sulle esportazioni americane verso la Cina, ma nel frattempo il confronto a distanza sui dazi si è esteso ad altre aree, a una guerra finanziaria, per le materie prime e di sfida alla leadership globale ancora più esplicita da parte di Pechino. Molti paesi hanno già preso le misure di questa nuova condizione internazionale: dopo il dialogo a Roma con le controparti americane, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è arrivato ieri a Pechino ufficialmente “per discutere dei negoziati con l’America”, proprio come le consultazioni che aveva avuto con la Russia subito prima di partire per l’Italia. Pechino era stata tra i paesi firmatari e garanti del deal sul nucleare iraniano del 2015, e l’altro unico successo di politica internazionale benedetto dai funzionari cinesi era stato il riavvicinamento fra Iran e Arabia Saudita del 2023. In questa nuova fase, però, la leadership di Xi Jinping sta tenendo il punto sul piano dell’escalation con l’America. Lo fa frenando le esportazioni verso l’America di materiali strategici, per esempio, e cercando in tutti i modi di aumentare i consumi interni e di trovare nuovi mercati dove esportare la produzione in eccesso. Ma allo stesso tempo Pechino sta tornando a chiedere un posto privilegiato nei negoziati internazionali – un modo, secondo gli osservatori, di fare pressioni indirette anche su Washington. La proiezione internazionale è necessaria alla leadership cinese anche perché “la Cina non scommette più su una svolta negoziale” con l’America, ha scritto Lizzi C. Lee del think tank australiano Aspi. “Le attività diplomatiche di basso livello continuano, ma hanno dato scarsi risultati. Ai vertici, l’impegno si è arenato. Pechino vede l’approccio di Trump, che si aspetta che i leader mondiali si rivolgano a lui per implorare una soluzione, come incompatibile con il desiderio di Xi di proiettare forza. La Cina preferisce una diplomazia dal basso verso l’alto, che definisca la sostanza prima che Xi entri in scena”. E poi c’è un’incognita perfino più tecnica: “Il problema da risolvere per far sì che i colloqui riprendano il più rapidamente possibile è quale dipartimento e quale persona condurrà i colloqui”, ha detto al Washington Post Zhu Feng, preside della Scuola di Studi internazionali dell’Università di Nanchino. Il segretario di stato Marco Rubio, sotto sanzioni da parte di Pechino, non ha un ruolo cruciale nella Casa Bianca di Trump nelle relazioni con la Cina; nel cerchio magico del presidente si scherza spesso sul fatto che Steve Witkoff, l’imprenditore esperto di tutto e di niente ormai a capo dei negoziati più difficili per la politica estera americana, potrebbe finire per trattare pure con Pechino. E la Cina sa di poter sfruttare a suo vantaggio la scarsa preparazione.
“Gli Stati Uniti e la Cina si trovano in uno stato di decoupling economico e non sembrano esserci guardrail per evitare che l’escalation delle tensioni commerciali si estenda ad altre aree”, ha detto al New York Times Rick Waters, ex diplomatico americano che ha lavorato con l’Amministrazione Biden e ora dirige il China Center del Carnegie Endowment for Global Peace. “Sta diventando sempre più difficile sostenere che non ci troviamo in una nuova Guerra fredda”. Anche Kurt Campbell, ex vicesegretario di stato americano con Biden e autore del “Pivot to Asia” di Barack Obama, intervistato da Christiane Amanpour sulla Cnn per la prima volta dalla fine del suo mandato ha detto di non essere sicuro che la strategia originaria della Casa Bianca fosse quella di fare pressione attraverso i dazi sui paesi alleati dell’America per diminuire la loro interdipendenza con la Cina. Campbell ha spiegato che sebbene nessuna delle prime due economie del mondo sia “pronta per un vero decoupling”, allo stesso tempo i rispettivi leader non hanno idea di “come tornare indietro” da un conflitto per ora soltanto economico. Soprattutto, l’America “non può permettersi” questa guerra da sola, senza alleati.