Da Sarajevo al Vietnam, dalla Cecenia all’Ucraina, i posti di guerra sono di due generi: quelli da cui si va a bombardare e quelli in cui si viene bombardati
Odessa, 23 aprile. C’è un altro modo, il più concreto, di sapere da che parte si sta, e perché. Lunedì, per esempio, qui sono piovuti 26 droni, in vari punti della città, su case civili e sul porto. Ci sono stati vasti incendi. Tre feriti, almeno… E’ durato qualche ora, a cominciare dalla sera, quando ragazze e ragazzi e famiglie erano in giro. Benché gli ucraini abbiano impiegato meglio i loro droni da qualche tempo, nessun odessita stava bombardando le case della Russia. Io stavo dalla parte mia e dei miei, quelli bersagliati. E perché ero lì? Ma proprio per questo.
Mi sono reinterrogato su me. Nel 1980 sono andato per la prima volta in una guerra, dopo che nella più orribile ero nato. L’Iraq arabo e sunnita di Saddam contro l’Iran persiano e sciita della appena fondata Repubblica islamica. In Iran c’era stato, dal 1978, un sommovimento popolare così enorme e inarrestabile, e con un tale protagonismo femminile, da eclissare i precedenti, salva forse la Rivoluzione culturale cinese, con la quale avrebbe condiviso la malora finale. Allora la parola massa era ancora rispettata se non venerata, e per un quarto d’ora la rivoluzione iraniana sembrò promettere una imprevista liberazione. Saddam aggredì l’Iran in cui era rientrato dall’esilio l’ayatollah Khomeyni. Quella guerra micidiale di fanatismi durò ben otto anni. Feci la mia prima vasta conoscenza delle città appena bombardate, dei sacchi neri, dei moncherini.
C’erano stati precedenti, episodici, indiretti e soprattutto forieri di commozione: per la guerra d’Algeria, Alleg e “La tortura”, per la Spagna di Franco e della garrota, “Morire a Madrid”. Poi la vera rottura, per la mia generazione, il Vietnam in cui gli americani avevano preso il posto dei francesi sconfitti. Comunque, a distanza, la si guardi, in quella guerra gli americani bombardavano il Vietnam, i vietnamiti non bombardarono mai l’America. Era piuttosto chiaro.
La mia volta successiva venne molto dopo, nella ex Jugoslavia e specialmente nella Bosnia di Sarajevo. Là la nettezza delle posizioni, cioè delle postazioni, era esemplare. Sarajevo è in una conca circondata da colline e veri monti, adatta all’olimpiade invernale e all’assedio quadriennale. Sopra stava il lupo, di gran lunga più in basso l’agnello, benché riprovassero a raccontare la storia alla rovescia. Dall’alto, era un tiro a segno, di artiglieria, di cecchini. Sportivo, anche: i visitatori come Eduard Limonov prendevano in prestito il fucile dello snajper e tiravano, per diletto, per scriverci su, e per vantarsene. Non sono mai stato sfiorato dalla leggenda di Limonov: tirava sui miei e su me. Era piuttosto chiaro. Non un sarajevese aveva mai tirato un colpo su Belgrado. Finita la guerra guerreggiata – non che fosse venuta la pace, era finita la guerra, che tuttavia è moltissimo – consegnata Srebrenica alla parte che aveva compiuto il mattatoio e che continua a gloriarsene, il nazionalsocialismo serbista passò all’ulteriore ordine del giorno, in Kosovo. Qualcuno continuava – continua ancora – a riconoscervi e rimpiangervi l’antifascismo e il socialismo realizzato, come con l’Urss stalinista.
Allora andai in Cecenia, c’era una guerra feroce e inverosimile: l’impero russo contro un paese minuscolo come il Molise, con poco più di un milione di cittadini. E quella prima guerra la piccola Cecenia la vinse, e a perderla fu la Russia di El’cin. Si preparava l’avvento di Putin, e la sua ammirata tabula rasa. Non occorre dire che le forze russe bombardavano senza riserve Grozny e le città e i villaggi ceceni, mentre i ceceni, che pure compirono un paio di spericolate escursioni partigiane, poi terroriste, oltre confine, non bombardavano le città e i villaggi russi.
Sono stato in Israele e, troppo brevemente, a Gaza, durante la “guerra” del 2014. Lì c’era una maggiore reciprocità, e insieme un’enorme smisuratezza: la stessa che un giorno potrà rovesciarsi nel suo contrario.
Feci poi l’esperienza fisica e civile di un’altra doppia guerra, quella che la Turchia conduce senza tregua contro i curdi, e quella dei curdi iracheni e turchi, e degli yazidi, contro il Daesh, lo Stato islamico. La divisione del lavoro, fra chi bombarda e chi è bombardato, chi invade e chi è invaso, chi colpisce la casa d’altri e chi è colpito a casa propria, si ripeté tal quale, e si ripete.
Finalmente sono andato in Ucraina, all’inizio dell’invasione russa. Sapevo che il mondo, e quella parte di mondo specialmente, è tormentato, e ha conosciuto i torti più feroci e le sofferenze più irreparabili. Ma non poteva esserci dubbio su quel criterio ricorrente e così distrattamente tralasciato: le forze armate russe bombardavano gli ucraini a casa loro, gli ucraini non bombardavano i russi a casa loro. Così siamo tornati al punto di partenza, a Odessa lunedì sera – o stasera, o domani.
Il giornalismo non c’entra con tutto questo. Parlo delle persone, non dei giornalisti, o di altre professioni. Si può stare tutta la vita a casa propria, come Emilio Salgari, e scrivere, dire, fare un podcast o due. Oppure si può muoversi, e andare anche nei posti in guerra, per esempio se si senta che niente di ciò che è umano ci è estraneo. E che le città, i paesi, le persone, gli animali, possono esserci parenti, dei più cari. I posti in guerra sono di due generi: quelli da cui si va a bombardare, come Francesco Totti, e quelli in cui si viene bombardati. Sì, anche Dresda fu bombardata, e Nagasaki, e meglio sarebbe stato che no. Ma vi ricordate di chi aveva cominciato, come dicono i bambini, e con quali progetti. Conto di essere stato chiaro. E che l’eventualità che qualcuna, qualcuno, voglia argomentare che la pace è davvero desiderabile, e che la guerra è certo una brutta cosa, bruttissima, mi fa l’effetto di una sirena d’allarme nel punto in cui, col nastro adesivo sui vetri, finalmente riuscivo a prendere sonno.