Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore – Ora che Papa Francesco è morto e un nuovo Conclave è alle porte, sia il totopapa sia le manovre per l’elezione del successore di Bergoglio procederanno a vele spiegate. Niente di cui scandalizzarsi, per carità. Checché ne dicano i ben pensanti, l’elezione del Pontefice è un fatto anche umano. O qualcuno crede davvero che il card. Wojtyla, tanto per fare un esempio, sarebbe mai diventato Giovanni Paolo II senza l’abile lavoro dietro le quinte del suo mentore, il cardinal Wyszynski? Suvvia, non scherziamo. Che poi lo Spirito Santo sia il vero e unico artefice dell’elezione non sposta di una virgola quanto stiamo dicendo. Avendo bene a mente, è bene ricordarlo agli smemorati, che lo Spirito Santo è solito operare servendosi di persone concrete. Il punto caso mai è un altro. L’essenza del mandato petrino consiste in una sola cosa: confermare nella fede i fratelli (e le sorelle, ci mancherebbe). A questo dovrebbero guardare i cardinali quando saranno chiamati a eleggere il nuovo Papa. A questo e a null’altro. Tanto meno se sia un conservatore o un progressista, un tradizionalista o un riformista, qualunque cosa tali categorie significhino. Il che fa tutt’uno con l’esigenza, l’unica che davvero conti, che il prossimo Papa non sia altro se non, semplicemente, cattolico.
Luca Del Pozzo
A questo proposito, suggerisco la lettura di un passaggio formidabile del libro “Catechismo della vita spirituale”, scritto due anni fa dal cardinale Robert Sarah, prefetto emerito del dicastero per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. Il volume è edito da Cantagalli. “Un onesto esame di coscienza dovrebbe portarci a riconoscere che la stessa nostra religione è parzialmente responsabile della sua marginalizzazione. E’ diventata un po’ dappertutto insipida e tiepida, senza convinzione e priva di chiarezza nel suo linguaggio diventato confuso e ambiguo. Se, oltre a ciò, la Chiesa investe tutte le proprie energie in questioni mondane per le quali non possiede particolari competenze; se i cristiani elaborano, ciascuno, la propria dottrina e il proprio piccolo magistero; e se, scontrandosi inevitabilmente gli uni contro gli altri, iniziano a odiarsi e a insultarsi volgarmente, offrendo uno spettacolo di odio, risentimento, menzogna, rifiuto, disprezzo e di reciproche umiliazioni, come potrebbero ricondurre il mondo a Dio e proporre il Vangelo come stile di vita e libertà, così che il Verbo di Dio possa costituire una diga, ‘il rifugio dell’uomo davanti all’onda di piena del male che cresce nel mondo’, secondo l’espressione di Papa Francesco?”.
Al direttore – Le ultime immagini di Papa Francesco che nella domenica di Pasqua, dopo l’Urbi et Orbi, in piazza San Pietro fa fermare la papamobile per una carezza e una benedizione ad alcuni bimbi ci restituiscono e ci mostrano la tenerezza quale cifra più profonda del suo pontificato. Tante volte, in questi dodici anni, Francesco ha parlato della tenerezza quale dimensione propria di Dio, del Dio di Gesù Cristo, costitutiva del rapporto tra il Creatore e la creatura e manifestata in maniera definitiva con la passione, morte e risurrezione del Figlio. E forse, in questo senso, è davvero un segno che la morte del Santo Padre sia avvenuta proprio all’inizio dell’Ottava di Pasqua, nel cuore cioè della gioia pasquale che dalla tenerezza di Dio nasce e si diffonde. Credo che questa tenerezza predicata, praticata e testimoniata da Francesco costituisca una premessa fondamentale per la comprensione del suo pontificato: il perdono e la misericordia come traccia da tutti sperimentabile dell’amore di Dio, del suo instancabile attendere, farsi prossimo, asciugare le lacrime, accogliere, rimettere i peccati, fino alla radicale assunzione in sé della colpa.
Il papato di Francesco, come ogni pontificato, lascia frutti visibili e frutti invisibili: questi ultimi vivono e maturano silenziosamente nel cuore delle persone, fermentano nell’anima, fioriscono nella grazia del cambiamento, e sono quelli che più in profondità sono destinati a tracciare solchi antichi e nuovi di bene, di bellezza e di verità nella vita degli uomini e delle donne e a incidere alla radice sulle vicende dei popoli e sulla rotta della barca di Pietro tra i marosi della storia.
Gianteo Bordero
Al direttore – Che la morte di Papa Francesco induca alla commozione è del tutto naturale. E disumano sarebbe non lasciarsi coinvolgere da un avvenimento di tale mestizia. Ma quando la storia si occuperà di questo pontificato, sarà impossibile ignorare i momenti che ci hanno costretti a osservare l’opera del Papa argentino con spirito critico e grande scetticismo. E così, sarà difficile dimenticare le sue parole dopo il massacro compiuto dai terroristi islamici nella redazione di Charlie Hebdo, quando Papa Bergoglio disse che la fede non si offende, e se qualcuno insulta la mamma, è normale aspettarsi un pugno. E sarà ancora più complicato non rammentare quanto il Santo Padre affermò a proposito dell’Ucraina, prima includendo fra le cause delle guerra “l’abbaiare” della Nato alle porte della Russia, e poi, addirittura, invitando la stessa Ucraina ad avere il coraggio di alzare bandiera bianca. Infine, sarà davvero possibile sorvolare sull’insinuazione che Israele stia compiendo un genocidio a Gaza? I libri di storia, naturalmente, racconteranno anche molto altro di Papa Bergoglio, i momenti più splendenti del suo pontificato, quelli in cui la potenza di un Pontefice “venuto quasi dalla fine del mondo” si è manifestata davanti agli occhi di tutti noi (uno su tutti, il Santo Padre da solo sul sagrato della basilica di San Pietro in piena pandemia). Ma il lascito oscuro e amaro di alcune delle pagine più buie scritte da quello che per molti è stato il “Papa del popolo”, ci accompagnerà, purtroppo, anche in questi momenti di infinita tristezza.
Luca Rocca