Molti leader politici, come Trump, scaricano la responsabilità dei problemi economici sulle banche centrali per evitare di affrontare i propri errori. Ma la Fed e la Bce non possono correggere con la politica monetaria i danni causati da scelte fiscali o commerciali sbagliate
C’è un modo molto comodo per nascondere le proprie colpe: prendersela con chi non può rispondere direttamente. In politica economica, da anni, il capro espiatorio preferito è diventato la Banca centrale. E’ colpa della Fed se l’economia americana rallenta, dice Trump. E’ colpa della Bce se la crescita europea non decolla, dicono molti leader del continente. Ma le cose non sono mai così semplici. E spesso, chi grida contro Powell o Lagarde non chiede rigore, ma indulgenza plenaria per i propri peccati fiscali, industriali, politici. L’esempio più recente viene dagli Stati Uniti, dove Donald Trump ha deciso di puntare il dito contro la Federal Reserve. Giovedì scorso ha accusato Jerome Powell di essere “troppo tardi e sbagliato” per non aver tagliato i tassi di interesse, come invece ha fatto la Bce. Secondo Trump, i dazi stanno arricchendo gli Stati Uniti, i prezzi (persino quelli delle uova!) stanno scendendo, e quindi la Fed dovrebbe allentare la politica monetaria. Subito. Senza se e senza ma. E magari anche dimettersi, visto che, secondo lui, Powell sarebbe ormai un ostacolo alla prosperità nazionale.
Il problema è che Powell, a differenza di Trump, ha detto la verità. I dazi non arricchiscono nessuno: sono tasse. Tasse sui beni importati, che si traducono in aumento dei prezzi e in un freno alla crescita. La Fed ha l’ingrato compito di mantenere l’inflazione sotto controllo, ma anche di garantire stabilità economica. Quando il presidente impone un dazio globale del 10 per cento (quattro volte l’aliquota media precedente), le conseguenze si scaricano sui consumatori e sulle imprese. Eppure, anziché ammettere che le sue politiche commerciali stanno creando distorsioni, Trump preferisce spingere la Banca centrale a tagliare i tassi, come se potesse cancellare per magia gli effetti della sua stessa strategia protezionistica. Sembra una storia americana, ma non lo è affatto. Anche in Europa si gioca la stessa partita. Ogni volta che un’economia fatica, qualcuno dà la colpa alla Bce. Troppo rigida. Troppo ossessionata dall’inflazione. Troppo tedesca. E’ diventato quasi un riflesso automatico: se l’Italia non cresce, se la Francia sfora i parametri, se la Spagna arranca sulle riforme del lavoro, dev’essere colpa di Francoforte. Come se la politica monetaria potesse da sola risolvere problemi strutturali, assorbire choc geopolitici, supplire all’assenza di visione industriale. Ma la realtà è diversa. La Bce ha già fatto molto: tassi negativi per anni, acquisti di titoli a valanga, sostegno esplicito alla coesione dell’eurozona nei momenti più critici. Il paradosso, però, è che proprio quando le banche centrali cercano equilibrio, diventano il bersaglio ideale. Il caso Powell-Trump è emblematico perché mette in luce questo cortocircuito. Trump vorrebbe che la Fed correggesse i danni delle sue stesse scelte. Che neutralizzasse l’inflazione da dazi con un taglio dei tassi. Ma la Fed – dopo i disastri post-pandemici – ha capito che la credibilità non si ricostruisce assecondando la politica, ma resistendo alla sua tentazione di facile consenso. E’ una lezione utile anche per l’Europa. L’autonomia delle banche centrali non è un lusso tecnocratico: è una garanzia per tutti. Soprattutto per quei cittadini che non hanno l’arma del tweet per manipolare i mercati. Ma per funzionare, questa autonomia va rispettata. E difesa. Anche dai governi amici.