Da “Cuore” alla tragedia di Italia Donati, fino alle donne coraggiose che si battono a Caivano. “Primmammore” è un romanzo che si spinge dove la cronaca non arriva
Le maestre sono come soldati, stanno in prima linea. È quello che ho pensato leggendo “Primmammore” di Titti Marrone, da poco pubblicato da Feltrinelli, in cui lo spirito guida, la voce narrante, è quella di una maestra che ci porta dove l’immaginazione non vorrebbe andare: nel palazzo degli orchi, un condominio che ricorda quello di Caivano, dove qualche anno fa una bambina “volò” giù da un balcone e l’autopsia rivelò i segni di continuati abusi. Si scoprì anche che in quel condominio quello non era l’unico “volo” d’angelo e che nella cintura di spine intorno a una delle città più belle e magiche del mondo, in un rione dove parecchie famiglie campavano di spaccio, era cresciuta – coperta da diffusa omertà – una pianta carnivora. Una consorteria capace di abusi sessuali e persino di uccidere bambini che, stanchi di violenze travestite da giochi, avevano provato a ribellarsi.
Questa storia brutta e cattiva ispira un romanzo che si spinge dove la cronaca non può arrivare: nel teatro delle motivazioni, in cerca della ragione dei silenzi e delle ambiguità, nella ricostruzione della fascinazione malefica, del castello di bugie che lupi travestiti da parenti e vicini di casa orchestrano per attirare le vittime nella rete del ragno e convincerle che è tutto normale o quasi. Poi tutto passa. La forza del libro sta qui: nel dissipare gradualmente, in uno svelamento progressivo, la nebbia che confonde e dissimula i fatti. Titti Marrone apre quella porta e sa farlo senza ferire. Lo stesso dono che le ha permesso – con un suo libro precedente, intitolato “Se solo il mio cuore fosse pietra” – di raccontare l’avventurosa storia della comunità terapeutica di Lingfield, che alla fine della Seconda guerra mondiale divenne il centro di recupero dove Anna Freud, con un gruppo di collaboratori, si occupò di restituire alla vita bambini usciti dai lager nazisti o rimasti nascosti per anni nelle soffitte, come piccole ombre superstiti. Nessuno sapeva come fare a curarli, loro ci provarono e fecero scoperte sconvolgenti.
Se lì, ad avanzare nel buio e a illuminarlo per il lettore, era lo sguardo amorevole di una delle volontarie della comunità di Lingfield, in “Primmammore” è quello della maestra Costanza, che ha insegnato nella scuola di quei bambini. Del resto, quando è attenta e sensibile, quasi sempre è proprio la maestra ad accorgersi se, nella vita di un bambino, qualcosa non va. E questa è una maestra particolare, una che da ragazza, a Napoli, ha frequentato la Mensa dei bambini proletari di Montesanto, a Vico Cappuccinelle. Quella dove Elsa Morante, nascosta sotto un foulard e con pesanti occhiali scuri, era andata in cerca del piccolo Useppe per il suo grande romanzo popolare “La Storia”; quella dove Luigi Comencini, che allora lavorava a “Pinocchio”, si arrotolava le maniche fino al gomito e lavava i piatti. La maestra disegnata da Titti Marrone ha conosciuto Fabrizia Ramondino quando non aveva ancora pubblicato i suoi romanzi e insegnava nei vicoli; si è formata seguendo il lavoro fatto per il recupero all’obbligo scolastico da Carla Melazzini, Cesare Moreno, Marco Rossi Doria. Ha conosciuto l’accademia pedagogica dei maestri di strada che opera in contesti molto difficili: questa capacità sperimentale, di innovazione e ricerca educativa, è infatti un’altra delle facce di una città dove il bene e il male si sfidano. Forse la maestra Costanza è anche, a suo modo, un’investigatrice. Non nel senso ovvio, non risolve indagini poliziesche, semmai ricostruisce la genesi dei “cattivi pensieri”, il substrato di usi e costumi che, in situazioni di sofferenza e particolare degrado, ha favorito la crescita di piante carnivore e tollerato abusi.
Le maestre si accorgono se qualcosa non va nella vita di un bambino
Ne nasce un racconto di “si sa ma non si dice” e di cose accadute che subito scompaiono perché non se ne può parlare. Un invisibile ordito che, su come gira il mondo, rivela molto di più di un’indagine sociologica; Titti Marrone conosce Napoli come le sue tasche, ha diretto a lungo le pagine culturali del Mattino, e qui lascia che siano storie e voci della città a illuminarne gli angoli bui.
La Maestrina dalla Penna Rossa e il maestro Perboni sono state icone della scuola che, fatta l’Italia, doveva fare gli italiani
La maestra Costanza, che da femminista mette in questione anche se stessa, è una figura nuova nella galleria delle insegnanti – vere o inventate, sagaci o ingenue – che popolano il nostro immaginario. E davvero è lontana anni luce dalla più antica, l’archetipo che tutti ricordano: la Maestrina dalla Penna Rossa di Edmondo De Amicis, con la crocetta di vetro appesa al collo, due graziose fossette e la piuma vermiglia sul cappello. Ripercorrendo la distanza che separa queste due maestre si capisce quanto siamo cambiati.
Eppure “Cuore”, che per il suo buonismo fu coperto di sghignazzi dalle avanguardie letterarie degli anni Sessanta, e che ai nostri occhi di oggi appare quasi parodistico, è ancora – con “Pinocchio”, il più letto di sempre – uno dei libri italiani più conosciuti nel mondo. La maestra di De Amicis sempre allegra, che corre dietro ai suoi ragazzi perché non si accapiglino, fu con molta probabilità ispirata da un’insegnante torinese amata da generazioni di scolari. Si chiamava Eugenia Barruero, era nata nel 1860 e fu ritratta da Walter Molino, che alla sua morte – nel 1957 – volle renderle omaggio con una copertina della Domenica del Corriere. Del resto, De Amicis era giornalista e scrittore dal vero.
La Maestrina dalla Penna Rossa e il maestro Perboni sono state icone della scuola che, fatta l’Italia, doveva fare gli italiani. E, con le vite dei maestri, si potrebbe ricostruire, in una sorta di affresco, tutta la nostra storia. Lo fa, in parte, lo storico Mario Isnenghi nella sua “Autobiografia della scuola. Da De Sanctis a Don Milani” appena uscito dal Mulino. A De Amicis, Isnenghi restituisce un posto di rispetto. Certo, “Cuore” non è un capolavoro come “Pinocchio”, ma con le sue trecentomila copie nei primi vent’anni (uscì nel 1886, in un paese semianalfabeta) e con le sue innumerevoli traduzioni, edizioni, ristampe per molte generazioni di lettori, fu un’operazione culturale “di portata storica”, sostenuta da “un bestseller universale di lungo periodo”. “Cuore” è parte del percorso fondativo dell’identità nazionale, della costruzione di un “noi” ecumenico – osserva Isnenghi – che supera le divisioni pre e post risorgimentali. In quel contesto, De Amicis focalizzò per la prima volta le vite degli scolari, ma certo non riuscì a individuare le scolare né a capire che la grande avventura dell’alfabetizzazione stava facendo delle maestre un’avanguardia e l’espressione di una femminilità del tutto nuova.
Di questo formidabile passaggio si accorse invece Matilde Serao, che in quegli stessi anni, a partire dal 1885, pubblicò a puntate su una rivista il suo romanzo “Scuola normale femminile”, rendendo chiaro come l’istruzione fosse l’unica possibilità, per le ragazze povere, di elevare la propria condizione diventando maestre o impiegate. Ma, malgrado il bozzettismo, la scuola napoletana che Serao racconta non ha nulla di edificante: il contesto è squallido e descritto – annota Isnenghi – con “astiosa asprezza”. Matilde Serao era uscita proprio da una di quelle scuole, dove le allieve erano sempre a rischio di essere risucchiate dalla miseria delle famiglie, dove la qualità dell’insegnamento impartito era scadente e il futuro lavoro qualificato restava lontano e improbabile.
Serao aveva chiaro come l’istruzione fosse l’unica possibilità, per le ragazze povere, di elevare la propria condizione diventando maestre o impiegate
Il 1886, l’anno di “Cuore”, fu anche quello di un terribile caso di cronaca che coinvolse una giovane maestra toscana, spinta al suicidio dalle molestie sessuali persecutorie di un notabile di paese (il sindaco di Porciano che, stando all’ordinamento del tempo, era il suo datore di lavoro). La maestra si chiamava Italia Donati, aveva solo ventitré anni, era bellissima e di modeste origini. Si gettò nel fiume come Ofelia in seguito alla campagna diffamatoria che il sindaco, che ovviamente era ammogliato, le scatenò contro per vendicarsi d’essere stato respinto. Il Corriere della Sera capì l’importanza della vicenda e la seguì con attenzione, ma a trasformarla in un cavallo di battaglia fu ancora Matilde Serao che, sulle colonne del Corriere di Roma, la arricchì con altre storie, denunciando le condizioni di vita delle maestre rurali in un famoso articolo intitolato “Così muoiono le maestre”. La Signora, come l’avrebbero poi chiamata i napoletani, non era femminista ma volle prendere le parti di quella generazione di ragazze che, sfidando i pregiudizi di un’Italia barbara e incolta, andavano a insegnare in aule fatiscenti e non riscaldate, vivendo da sole lontane da casa, in mezzo a gente ostile che nella miseria usava i bambini per il lavoro dei campi.
La storia di Italia Donati – ricorda Isnenghi – ebbe molti echi narrativi. Fu ripresa in “Primo maggio”, romanzo di De Amicis rimasto inedito fino al 1980, dove però la maestra si salva e diventa socialista. Nel 1917-18 ispirò una commedia di Dario Niccodemi, “La Maestrina”, dove però si arriva al lieto fine: lei sa farsi valere e il sindaco-predatore si riscatta incivilito. Allora erano già passati più di trent’anni dai fatti. Sempre a posteriori, la vicenda riecheggiò in un racconto di Renato Fucini che, all’epoca di Italia Donati, fu provveditore scolastico da quelle parti: avrebbe potuto fare qualcosa e non lo fece, poi scrisse una novella – pubblicata postuma – in cui si racconta di un bellimbusto di paese che seduce la maestra e poi si acconcia al matrimonio riparatore. A ritornare sul caso più di un secolo dopo, ricavandone un romanzo pubblicato nel 2003, è stata Elena Gianini Belotti – l’autrice del bestseller internazionale “Dalla parte delle bambine” – che in “Prima della quiete. Storia di Italia Donati” ricostruì tutti i dettagli grazie a una meticolosa inchiesta su come fu possibile arrivare a tanto. Chi perseguitò impunito, chi avrebbe potuto parlare e tacque, chi come Renato Fucini avrebbe potuto intervenire e non lo fece.
A cavallo tra i due secoli – Ottocento e Novecento – dietro alla figura della maestra agiscono e confliggono spinte molto importanti come la diffusione dell’istruzione nei ceti popolari, la laicizzazione della scuola, l’allargamento dell’obbligo scolastico, il cambiamento della condizione femminile. E questo ha interessato molti scrittori: dalla “Maestrina Boccarmè” di Luigi Pirandello (1899, si trova nelle “Novelle per un anno”) a quella di “Anima bianca”, il racconto che Ada Negri pubblicò nel 1917 nella raccolta intitolata “Le solitarie”, tutte storie di donne che vogliono o devono cavarsela da sé in un mondo dove il matrimonio è l’unica vera forma di integrazione.
Nel suo saggio storico sulla scuola, Isnenghi naturalmente intreccia molti altri fili. Noi, che qui vogliamo seguirne uno solo, non possiamo trascurare due momenti importanti. “Il romanzo della scuola normale femminile”, scritto nel 1923 in forma di diario da una certa Ada De Valles – probabilmente uno pseudonimo, non sappiamo se di penna maschile o femminile – per sparare contro “professore, direttrici, cape senza avere la testa per poterlo essere, filosofesse laureate” eccetera. Isnenghi lo definisce una sintesi di “radicalismo reazionario” e nota che fu pubblicato nell’anno della riforma della scuola di Giovanni Gentile. Ministro che, come è noto, era assai preoccupato dalla femminilizzazione dell’insegnamento e che considerava le donne adatte ai più piccoli ma non ai gradi più alti dell’istruzione. Poiché, sono parole sue: “Anche alle donne migliori vengono meno le forze necessarie a chi per educare deve prima di tutto dominare”.
Grande per la statura del personaggio, piccola perché la maestra Ida Ramundo, creata da Elsa Morante, è fragile come una ragazzina
E poi venne la vergogna delle leggi razziste del 1938 e l’espulsione degli ebrei dalla scuola con la difficoltà di definire chi-quanti fossero veramente per poterli cacciare via. E qui lasciamo Isnenghi per incontrare, tra le maestre letterarie, la più grande di tutte e insieme la più piccola. Grande per la statura magnifica del personaggio, piccola perché la maestra Ida Ramundo, creata da Elsa Morante per “La Storia”, è fragile e indifesa come una ragazzina. Così, davanti al soldato tedesco che si trovò davanti, “l’unico suo movimento fu di nascondere dentro una delle sporte – quali documenti minacciosi della propria colpa – dei quaderni di scuola che aveva nelle mani. Più che vedere lui, essa, sdoppiandosi, vedeva davanti a lui se stessa: come ormai denudata di ogni travestimento, fino al suo cuore geloso di mezza ebrea”.
Naturalmente abbiamo avuto anche grandi maestri, reali o inventati – tra quelli veri basta dire, citandone solo tre: Alberto Manzi, don Lorenzo Milani, Mario Lodi – ma, per tirare il filo seguito fin qui, mi piace chiudere con un’altra insegnante di oggi. L’autrice de “I figli degli altri. Una vita da maestra”, romanzo pubblicato lo scorso anno da Mondadori e firmato con lo pseudonimo di Nora De Luca per darsi la libertà di raccontare l’entusiasmo e il dolore dei bambini e la difficile convivenza degli adulti con la scuola. Un sistema dominato dall’improvvisazione e che fronteggia il caos grazie allo sforzo di insegnanti cui sono richiesti empatia e pragmatismo in dosi “fuori dal normale”. Le maestre di oggi stanno insegnando ai nuovi italiani, migliaia di bambini che arrivano dal mondo povero seguendo rotte impervie, superando naufragi e portando con sé la loro lingua e le loro esplosive emozioni.
E’ proprio vero: le maestre stanno in prima linea, come soldati.