Ecco i liberal americani che organizzano l’opposizione senza cedere al populismo isterico

Kamala Harris è sparita dai radar politici mentre i democratici, tra vecchie glorie e nuove leve come McMorrow e Ossoff, faticano a trovare una direzione chiara per contrastare il trumpismo 2.0. Intanto, l’ala progressista di Sanders e AOC mobilita le piazze, ma rischia di allontanare l’elettorato moderato

Come Carmen Sandiego, Kamala Harris è scomparsa. Dalle festose copertine dell’estate sulla Brat Summer o sulla celebrazione di una fantasiosa Kamalot, la candidata democratica alla presidenza ora non appare più nemmeno nei bollettini di partito. Dopotutto sembrano passati anni rispetto a novembre 2024, se si pensa a quello che ha combinato Donald Trump in questi pochi mesi di governo tra dazi, Doge e geopolitica, seguendo la regola bannoniana numero uno: “Inonda la zona”. Ma a differenza di Carmen Sandiego, nessuno sta cercando Kamala Harris, che forse si prepara a diventare governatrice del suo stato, la California, abbandonando la palude di Washington. Nessuno la cerca perché i democratici, mentre i repubblicani corrono con la motosega, sono ancora in una fase analitica, alle prese con l’autopsia post-elettorale. C’è qualche giudice che prova a opporsi alle politiche trumpiane, certo, e poi il leader dei deputati blu Cory Booker che parla per 24 ore ininterrotte al Congresso attaccando le policy Maga. Ma quella più che opposizione sembra una performance da Biennale. Secondo il 70 per cento dei votanti democratici, dice un sondaggio della Cnn, i leader del partito non stanno gestendo bene l’opposizione.

Questa metà dell’elettorato americano, quella che non ha votato per Trump, vede nei dem una certa mollezza, che sembra certificare la loro immagine cliché di burocrati poco proattivi, lontani dalla “pancia del paese”. Chi riesce ad avere visibilità in questo trumpismo 2.0 è invece l’ala sinistra della coalizione dem, quella capitanata da un duo con una discreta differenza di età, il senatore Bernie Sanders e la deputata Alexandria Ocasio-Cortez (per tutti Aoc), uniti dalla simpatia per la socialdemocrazia di stampo europeo, dagli slogan facili che vanno su Instagram e dall’infanzia newyorkese. Da una parte il memizzabile 83enne Sanders, amato dai millennial, non iscritto al partito ma orgogliosamente indipendente, e dall’altra Aoc, 35enne a capo della Squad, gruppetto di deputati in parte provenienti dai Socialisti democratici d’America, hanno deciso di andare in strada per raccogliere la rabbia della gente. I due stanno girando il paese con il Fighting Oligarchy Tour. Decine di migliaia di persone si presentano per condividere la rabbia verso Elon Musk e sentire frasi su quanto i miliardari stanno rovinando il paese, mentre Aoc ricorda a tutti che faceva la cameriera prima di finire al Campidoglio. La scorsa settimana Bernie, come è amichevolmente chiamato dalla sua fanbase under 40, è apparso sul palco del Coachella, il festival musicale millennial per eccellenza nel deserto losangelino, dove uomini a petto nudo prendono gelatine alla marijuana e ragazze col cappello da cowboy si fanno selfie ascoltando Lana del Rey. A Los Angeles è stata organizzata anche una sorta di nuova Woodstock pomeridiana, tirando fuori dal freezer Joan Baez e Neil Diamond, dove Bernie, contro l’autoritarismo trumpiano, ha voluto dire che “noi faremo la rivoluzione con la gioia, canteremo e balleremo fino alla vittoria contro l’odio e le divisioni”. Un rinascimento hippy con l’iPhone. In uno di questi comizi quando è salita sul palco Aoc qualcuno ha urlato “la nostra futura presidente”, perché, anche se Bernie non dice nulla, lui che ci aveva provato ad arrivare alla Casa Bianca, si parla della giovane deputata del Bronx come di una possibile scelta per il 2028. La massa non vede molte altre opzioni che si distacchino dall’aristocrazia di un partito visto come elitario. L’ex capo di gabinetto di Obama, Rahm Emanuel, ha detto che oggi il brand democratico è “tossico”. Aggiungendo che “oggi per la gente il partito democratico si può descrivere con due parole: weak & woke”, debole e woke.



Non c’è però solo questa corrente meno liberal e più filo-socialista, di un progressismo che spesso sfocia nel populismo di sinistra, che prova a fare opposizione. Anche se non riempiono le piazze allo stesso modo, facendosi accompagnare dai menestrelli usciti negli anni 60 dal Gaslight Cafe, ci sono alcune figure, dentro alla coalizione dem, che iniziano a preparare un’alternativa senza megafoni e chitarre. Una di queste è Mallory McMorrow. Il suo messaggio è chiaro: i dem devono riprendere in mano l’idea di american dream. Il pessimismo apocalittico liberal-progressista ha fatto solo prendere voti alla destra. McMorrow, 38 anni, capelli rossi, è membro del senato del Michigan dal 2019, uno stato che Trump è riuscito a prendersi per due volte, uno stato dove c’è la più grande comunità musulmana della nazione. La politica millennial ha raccontato che ha deciso di candidarsi la prima volta dopo che in una scuola media del suo quartiere, alla prima elezione di Trump, i bambini hanno iniziato a urlare lo slogan “costruisci il muro” a un compagno di classe ispanico. “Sono tornata a casa e ho scritto su Google: come entrare in politica”. McMorrow, cattolica – da bambina cantava nel coro della chiesa – viene dal New Jersey, ma si è stabilita a Detroit, cuore dell’industria automotive americana. Sposata, con una figlia di quattro anni, ha appena pubblicato il suo memoir-manifesto, un libro con un titolo un po’ self help – L’odio non vincerà: trova il tuo potere e lascia questo posto migliore di come l’hai trovato – ma che riassume il suo approccio molto pratico alla politica attiva (tutti i politici devono avere un memoir-manifesto da tirare fuori quando si entra nella serie A di Washington). Il metodo: parlare alla gente, e parlare delle politiche. Infatti, mentre molti cedevano alla retorica sognante all’ultima Convention democratica, McMorrow è salita sul palco con il volumone del Project 2025, il progetto ultraconservatore del circolo trumpiano (progetto che, per quanto Trump ne avesse preso le distanze, secondo gli analisti sta facendo da bussola alle decisioni governative). Sul palco, senza fronzoli e con un po’ di humor, ha sbattuto il volumone sul podio e ha parlato di cosa Trump avrebbe fatto una volta eletto. McMorrow questo mese ha annunciato la sua candidatura al senato degli Stati Uniti, visto che il senatore dem in carica andrà in pensione. “Abbiamo bisogno di nuovi leader”, ha detto McMorrow in un video. “La gente di Washington che ci ha infilati in questo casino non sarà la stessa che ce ne farà uscire”. McMorrow, con un vero spirito rottamatore, non ha avuto paura in passato di criticare Joe Biden, quando ancora era il candidato alla presidenza in estate, e gli ha chiesto di ritirarsi, nonostante il vecchio Joe avesse espresso pareri positivi su di lei. E lo stesso ha fatto di recente con il 74enne Chuck Schumer, il capo dei senatori dem, grande negoziatore, che ha evitato di mettere in crisi i repubblicani sul budget federale.



Nel partito, come sottolinea la giovane del Michigan, c’è sicuramente un problema di età. A distanza di pochi giorni, a marzo, due deputati dem plurisettantenni sono morti in carica. Si può dir tutto di Trump, ma non che non punti sulla carne fresca. Il suo vice ha appena fatto 40 anni. Il segretario alla difesa, ex volto tv, ne ha 44, così come la direttrice dell’intelligence nazionale. La combattiva portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ne ha 27. Tra i dem invece c’è ancora un senso di baronismo che nemmeno la rivoluzione Obama era riuscita a scardinare, tanto che il vecchio Joe venne scelto elettoralmente come vice anche per rassicurare i senior. Oltre a Schumer ci sono ancora figure ingombranti, di un’aristocrazia di partito, che non sembrano voler dare troppo spazio alle nuove leve. L’ex speaker Nancy Pelosi, 85enne, ha deciso di ricandidarsi per il suo posto alla camera, dove è arrivata nel 1987. E ci sono giovani che alle midterm dell’anno prossimo proveranno a scalzare dalla poltrona un po’ di ottuagenari. In Illinois una content creator 26enne, Kat Abughazaleh, che vuole “un partito democratico che non faccia schifo”, ha detto che sfiderà la deputata 80enne Jan Schakowsky. Il 37enne Jake Rakov, in California, sfiderà il proprio ex capo, il deputato 70enne Brad Sherman – “questa non è più l’America di mamma e papà, serve un leader che possa combattere efficacemente l’inferno trumpiano”, ha detto.


C’è anche chi, sfidando gli anziani, è riuscito già ad arrivare a Capitol Hill: Jon Ossoff. Figlio di un’australiana e di un ebreo di origini lituane, Jon Ossoff è stato eletto al senato a 33 anni nel 2021. Il più giovane dem a entrare nell’emiciclo dai tempi in cui Biden fu eletto nel 1973, Ossoff è il primo senatore ebreo della Georgia. Aveva ricevuto l’endorsement di Bernie Sanders, ma senza ricambiarlo. Bar-mitzvah, Georgetown e poi London School of Economics, Ossoff ha prodotto documentari di giornalismo investigativo con i soldi di un’eredità del nonno, che possedeva una fabbrica di pellame, e poi è stato membro dello staff di un deputato. Infine, con una campagna in stile Obama, ammiccando ai moderati, ha sfidato il veterano repubblicano 75enne David Perdue e ha preso il suo posto. Senza concentrarsi sugli scandali trumpiani ha proposto policy realistiche. Se, come McMorrow, è progressista sui temi sociali e civili – ma senza storture che la destra attaccherebbe come woke – su temi quali sicurezza ed economia è più cauto, quasi centrista. Quasi un ritorno al clintonismo (Bill, più che Hillary), cioè a un momento in cui i dem vincevano con entusiasmo, senza apparire come snob, o come eccessivamente distruttivi. Anzi, sembravano quelli che con l’economia avevano più polso, a differenza di oggi.



L’anno prossimo ci saranno le elezioni di metà mandato, e il seggio di Ossoff è a rischio. Trump ha vinto in Georgia sia contro Harris che contro Hillary, e anche Romney e McCain qui avevano ottenuto la maggioranza. Per prepararsi alla combattuta rielezione Ossoff ha già raccolto una cifra record di 11 milioni in questi primi mesi dell’anno. Non donazioni di megamiliardari, stile Musk con i repubblicani, ma di elettori normali, con una media di 32 dollari da parte di centinaia di migliaia di persone. Vista la vulnerabilità del suo seggio, ha iniziato la sua campagna in anticipo, tenendo anche conto che qui, nel 2022, erano stati spesi 515 milioni di dollari dal suo collega dem, il pastore nero Raphael Warnoc. Ma Ossoff è ottimista. Dice che gli elettori indecisi verranno alienati da quello che sta facendo Trump per ottenere ancora più potere. Secondo lui i modi “spericolati” del presidente spaventeranno i moderati. Ossoff, contro la linea principale del suo partito, è meno aperto sull’immigrazione, uno dei grandi temi che hanno dato la vittoria al GoP a novembre. E’ stato uno dei dodici dem a votare a inizio anno a favore di una legge, il Laken Riley Act, che porta all’immediata detenzione da parte del governo federale di immigrati illegali colpevoli di alcuni crimini.

Per quanto Ossoff dica che la durezza al confine implementata da Biden sia arrivata troppo tardi, questo non giustifica le misure “draconiane” spesso portate avanti da Trump, in particolare rispetto ai minori, o – come è successo con un abitante regolare del Maryland – agli uomini ammanettati e trascinati in El Salvador senza apparente motivo. Ossoff a un certo punto ha deciso anche di non essere più così compiacente con Netanyahu, facendo arrabbiare qualche storico donatore ebreo della Georgia. Dice di aver difeso da sempre l’assistenza Usa a Israele, soprattutto dopo il 7 ottobre, “ma questo non toglie”, ha detto rispetto a Gaza, “che uno si possa comunque opporre all’uccisione avventata di civili”. Gaza e l’appoggio a Netanyahu hanno diviso molto la coalizione dem nell’ultimo anno, soprattutto a livello generazionale. “Siamo in un momento della storia”, ha detto Ossoff, “in cui la protezione dei civili, le leggi dei conflitti armati e i valori umanitari di base sono in crisi”. In questa scelta di posizionarsi nel mezzo, va tenuto conto che nel suo stato c’è una grossa fetta della popolazione afroamericana, musulmana e non, che si è avvicinata alla causa palestinese. “Per capire quanto mi stia a cuore il tema antisemitismo”, ha aggiunto però il senatore, “basta vedere quante email antisemite ricevo ogni giorno!”. Quella del senatore di Atlanta è stata anche una delle voci più critiche contro l’amministrazione Maga quando il giornalista dell’Atlantic Jeffrey Goldberg è stato inserito per sbaglio in una chat dei massimi quadri della sicurezza Usa per organizzare gli attacchi agli Houthi. “Sono degli incompetenti”, ha detto senza mezze misure. “Il segretario della Difesa, Pete Hegseth, dovrebbe dimettersi”.



Rispetto alla Squad di Aoc, che ha costruito campagne sulle politiche identitarie e poco altro, i nuovi volti come McMorrow e Ossoff sembrano più adatti a sedersi al tavolo dei grandi. Sembrano più capaci di non alienare quell’America dei sobborghi che si è sentita poco rappresentata nei comizi di Harris, che, per quanto lanciata in corsa con la macchina ai 100 allora, è sempre sembrata confusa sulle cose importanti: abbassare il prezzo di uova e benzina e gestire l’immigrazione. Ora, con le piazze che si riempiono davanti a Bernie e Aoc e Joan Baez, il rischio è che il rebranding del partito vada verso un’atmosfera da Occupy Wall Street, cioè la costruzione di un consenso in grado di incanalare solo le istanze antisistema.

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