Viaggi da non ricordare. Nello spazio o solo in treno, tra overtourism e festival letterari. E poi un libro racconta gli artisti viaggiatori
Il masochismo del viaggiatore, si sa, non ha limite. Non c’è solo il volo spaziale (durato 11 minuti) della sòra Bezos, il primo caso di addio al celibato orbitale che si ricordi, che ha visto la ex giornalista popputa e nerboruta Lauren Sánchez (in procinto di sposare quello che talvolta è l’uomo più ricco del mondo) volare in orbita con un equipaggio tutto femminile compresa Katy Perry. Inguainate in tute blu tipo moderne Charlie’s Angels, Sánchez e le amiche fluttuanti nella navicella hanno scherzato che fosse un trucco del prossimo marito per far fuori la promessa sposa in vista delle nozze. Nozze che procureranno ulteriore overtourism a Venezia, luogo prescelto, in giugno. Perché viaggiare, anche non nello spazio ma anche su un semplice treno o aereo, è sempre più difficile. E se Giorgia Meloni si fa Washington-Eur andata e ritorno in 24 ore, almeno non sarà stata sottoposta ai controlli che terrorizzano chi pianifica una vacanza in America.
Cioè: non solo documenti in ordine (e guai a dire per esempio che si risiederà nella tal via e invece si starà nella tal altra): se una volta si rideva del questionario per l’America che chiedeva se si era affiliati a organizzazioni terroristiche, adesso c’è poco da stare allegri. Il il rischio è di essere subito “detained” come quegli sfortunati turisti tedeschi incarcerati per sei settimane alla frontiera americana. E se siete anche vagamente antitrumpiani, vi conviene comprare un telefono nuovo di zecca (anche un Brondi, o subito un iPhone in vista degli aumenti daziari) perché probabilmente ve lo controlleranno, e se trovano qualcosa di brutto sul nuovo presidente, zac, di nuovo detained, come il ricercatore francese bloccato all’aeroporto di Houston e rispedito in Francia. Stranamente, con questi episodi, i visitatori europei in America sono in calo del 17 per cento: perché certo la prospettiva di farsi dieci ore di volo, compilare il complicato visto provvisorio, l’Esta, avendolo pagato 21 dollari, per poi passare la settimana in un carcere federale, non è delle più allettanti. Anche a Londra, del resto, da aprile serve il permesso provvisorio (10 sterline). Il risultato di tutte queste difficoltà in giro per il mondo è che sempre più tutti vengono da noi! Così chi sperava in un flop del Giubileo a Roma viene immediatamente smentito, mentre a Milano i turisti si assommano ai frequentatori delle infinite week.
La stagione dei ponti poi è arrivata, Pasqua, Pasquetta, 25 aprile, 1 maggio, poi san Pietro e Paolo detto a Roma San Pietro e Ponza, ed è un attimo che siamo a ferragosto. Intanto i treni sono sovraffollati e in ritardo, e rubano pure. La nuova moda è infatti quella del furto dello zainetto, salgono che so a Milano Centrale, e scendono a Rogoredo, sostituendo il loro bagaglino vuoto col tuo (ma sui Freccia non ci sono ancora le ronde autodesignate che urlano “pickpockets” macinando follower come nelle metropolitane o tra le calli veneziane). Altro fenomeno in crescita, le code. Le code per qualunque cosa. Non solo per gli Uffizi o per i Musei Vaticani ma per le trattorie e focaccerie scrause che improvvisamente sono cinte d’assedio come gli Apple Store ai tempi d’oro. Non bastavano i buttadentro, quei torvi individui che nelle città d’arte stanno lì fuori dai bar a concupirvi sottovoce come tassisti abusivi (“Màdam, cappuccino?” alle 5 di pomeriggio), adesso anche la nuova mania importata dall’America, dove da sempre a quella tal pasticceria che è in voga quell’anno si va tutti, disciplinatamente, e anche la disciplina faceva parte finora dell’esperienza o “experience” dell’italiano all’estero; esotica perché, appunto, quand’è stato esattamente che gli italiani si sono appassionati allo stare in fila?
Siamo un popolo che semmai tradizionalmente le code mai le ha tollerate, e invece scavalcate, sguinciate, aggirate, facendo appunto, “gli italiani”. No, ormai se una gelateria o pasticceria è buona o media si fa mezz’ora di attesa. Specialmente generano file le focaccerie internettiane rese celebri dai TikTok magari spagnoli o taiwanesi, e lì ti troverai in mezzo a orde di turisti con lo spritz in mano in braghe corte che si instagrammano nell’attesa; in coda anche per la oscura trattoria che hai sempre evitato come la peste, trappola turistica nota a tutta la città, ma che improvvisamente per qualche strana ragione algoritmica è diventata celebre magari a seguito di un postaggio di influencer coreano. E se c’è la coda coreana ci va pure l’italiano. Insomma, un inferno.
Ma il viaggio è sempre stato un inferno, rivela Daria Galateria, sopraffina francesista, in un nuovo libretto per Sellerio, “Atlante degli artisti in affari”, un compendio di disavventure fantozziane di viaggiatori in un periodo preciso, tra il Grand Tour settecentesco e prima dell’overtourism fantozziano. Galateria si occupa soprattutto di una nicchia di disgraziati viaggiatori, e cioè appunto artisti e in particolare scrittori; noi lo sappiamo, del resto, che viaggiare da scrittori può essere micidiale, perché lo scrittore in genere non fa mai vacanze, ma vaga disperato di presentazione in presentazione, di festival in festival, tra alberghi lerci e la libreria che non ti fa arrivare le copie da vendere e il pubblico, specialmente in località estive, che è ancora al mare e non viene ad ascoltarti, e ti trovi tre persone svogliate (vorrebbero essere ancora in spiaggia), solitamente parenti prossimi del tuo presentatore. Lo scrittore ogni autunno si ripromette: mai più! Stremato dai cinquanta viaggetti di due-tre notti nel bed and breakfast sperduto al piano terra con affaccio sulla strada ad alta percorrenza del paese (e senza bar per la colazione, dunque solo bed), dopo la presentazione in cui ha venduto tre copie (incasso: il dieci per cento sul prezzo di copertina, quindi totale sei euro, lordi). Poi però ci ricasca: vuoi non presenziare al festival LibriamoCi a Cinisello Balsamo (titolo inventato, ma i festival puntano sempre sul calembour)? Si è detto tante volte, anche per autodifesa, tocca fare una TripAdvisor per scrittori, una app di festival con stelline e recensioni per: ospitalità; trasporti, partecipazione di pubblico, efficienza della locale libreria.
Ma adesso che comincia anche la stagione della transumanza creativa, può essere consolante leggere delle disavventure dei tanti antenati prestigiosi; andar per mare, per esempio nell’Ottocento, era ancora defatigante e pericoloso. Turgeniev nel 1938 si era trovato su un piroscafo che nella baia di Meclemburgo prese fuoco; “Per l’amor di Dio aiutatemi! Sono figlio unico di una ricca vedova!”, si mise a urlare, distribuendo denaro ai marinai per salire sulla scialuppa delle donne. Così si salvò (e scrisse poi “Padri e figli”; non era figlio unico). Una tempesta di mare più fruttuosa fu quella che colse Wagner, all’alba del 27 luglio 1839. Il compositore era in fuga dalla Lettonia verso Londra con la moglie e il cane terranova Robber quando la goletta sembrò colare a picco (ma da quella disavventura Wagner cominciò a ideare “L’Olandese volante”, perché va detto che nelle perigliose trasferte l’artista forse per non suicidarsi comincia a elaborare nuovi progetti; fuori dal suo nido abituale gli vengono infatti improvvise ispirazioni).
In Provenza per esempio nasce un classico della letteratura erotica, quella “Histoire d’O” scritto col nom de plume di Pauline Réage, in realtà ideata nel ‘54 da una insospettabile signora bien, traduttrice che sedeva nel comitato di lettura di Gallimard (del cui capo era anche amante) e che per caso si era trovata in vacanza nell’appartamento a Juan-Les-Pins, pieno di spade e forzieri e altri ciaffi goticheggianti di un’ereditiera americana, Florence Gould). La casa di vacanza le suggerirà quell’ambientazione castellana pre-Harry Potter per il libretto rosso che, allegato a Panorama, ha allietato generazioni di adolescenti. Solo a 87 anni la Elena Ferrante dell’erotismo rivelerà la sua vera identità.
Alcuni luoghi di scrittori sono invece diventati mete di turismo, come la famosa biblioteca che ancor oggi si puà visitare nel mezzo della foresta sullo sperone del Big Sur in California; lì nel ‘56, per scrivere “Tropico del Cancro” Henry Miller si era isolato in un casolare in mezzo al nulla, trentacinque miglia il negozio più vicino, e si faceva portare le provviste dal postino. Aveva accettato di scrivere quel testo pagato 1 dollaro a pagina da un petroliere dell’Oklahoma appassionato di pornografia, che commissionava testi erotici a qualunque scrittore gli capitava a tiro; all’incontro col petroliere non era andato lui di persona ma aveva mandato la sua amante, Anaïs Nin, che da quel momento si mette a scrivere pure lei roba pornografica con un certo successo.
A volte lo scrittore in viaggio si rivela un insospettato uomo d’azione: rischiò di affogare anche Baudelaire, che a vent’anni era stato spedito alle isole Bourbon dalla famiglia per tagliare i ponti con le cattive compagnie di Parigi. Al Capo di Buona speranza l’albero maestro si spezza, la barca si corica su un fianco, ma grazie proprio a Baudelaire la nave riesce ad arrivare fino a destinazione.
Ma l’artista può anhe non subire traversie e semplicemente vagare lost in translation, un po’ sperso, alla “che ci faccio qui”, per luoghi di vacanza. Negli anni Cinquanta Ernst Jünger, il poeta soldato, gira per i mercatini di Antibes ed è felice di poter stare finalmente in pantaloncini e maglietta e non in uniforme della Wehrmacht con le pesanti croci di guerra appuntate al petto, e scriverà “Una mattina ad Antibes”. Talvolta l’artista però vorrebbe tornare a casa, come dai festival, ma non può. Ecco dunque che Gauguin dipinge le sue polinesiane che tanto hanno contribuito al brand, ma è stufo e vorrebbe tornare, ma critici e collezionisti dalla Francia lo mettono in guardia: giammai. Lo vogliono esotico & etnico. Un Gauguin urbano perderebbe tutto il suo valore, come una Elena Ferrante ambientata a CityLife.
Se è vero che i motivi per cui si scrive sono i più disparati, tra cui la vendetta, come sosteneva il compianto Mario Vargas Llosa, sono frequenti i casi in cui si scrive per soldi e basta. Come in parte per Vladimir Nabokov: nato a Mosca da famiglia ricchissima, abituato da ragazzo ad andare a scuola con l’autista in livrea, allo scoppio della Rivoluzione d’ottobre la famiglia scappa in Francia e si mantiene grazie ai gioielli nascosti nel porta talco della madre. Vendendo un filo di perle si paga la retta a Cambridge. A un ballo conosce l’amore della sua vita, Vera, hanno un figlio, e per mantenerlo decide finalmente di mettersi a scrivere in inglese, fatto che deciderà la sua fortuna universale. E anche la sua salvezza: accetta pure di trasferirsi a Stanford, in California, sostituendo un amico all’università. Qualche settimana dopo la sua casa di Parigi viene centrata da una bomba tedesca.
A volte sullo scrittore si fa conto per missioni impossibili: William Somerset Maugham, l’autore più difficile da pronunciare della letteratura inglese, nel ‘17 viene spedito inopinatamente a Mosca col compito di sventare la Rivoluzione d’Ottobre. Ha un cinturone imbottito di soldi che però gli impedisce di lavarsi. Non riuscirà a impedire la rivoluzione, ma dal viaggio trarrà “Ashenden o L’Agente inglese”, che ispirerà James Bond a Ian Fleming. Evelyn Waugh, il secondo inglese di più ardua pronuncia, viene inviato nel ‘51 a Gerusalemme per conto della rivista Life per un fruttuosissimo reportage. Contano sul suo stile sarcastico, e sul suo fervente neo-cattolicesimo, ma niente, rimane folgorato dai Luoghi Santi.
Meta di un pellegrinaggio di nicchia è invece il famoso Nido dell’aquila di Hitler. Lui faceva il suo smart working sull’Obersalzberg, la montagna bavarese dove soggiornava inizialmente negli anni Venti alla pensione Moritz, e dove scrisse in parte il “Mein Kampf”, ma poi coi diritti del libro si fa una casa tutta sua. Sarà il celebre Berghof: “Aveva un aspetto impersonale, da albergo di lusso, tra modernità funzionale e rusticità massiccia ariana; mobili ideologici e ‘figurativi’, usciti dalla fabbrica e in attesa della patina”, scrive Galateria. Dal ‘38 il complesso si espande e divnta il famoso Nido dell’aquila, dotato di ogni comfort, compreso aeroporto. Specie di moderna Mar-a-Lago, pur essendo Hitler astemio (come Trump) e vegetariano, ha enormi dispense di carni e vini per i frequenti ospiti tipo il duca di Windsor con Wallis Simpson, mentre i più fedeli comprano case nelle vicinanze, tra cui Göring e l’architetto di regime Albert Speer.
A Parigi c’è invece da sempre il vezzo che i presidenti si fanno seguire in viaggio dagli scrittori, e quasi mai va bene. Yasmina Reza scrisse un reportage feroce su Sarkozy che contribuì al di lui declino; Giuliano da Empoli ha seguito Macron e racconta di un terribile meeting del presidente francese con Zelensky; ma Giorgia Meloni oggi chi mai si porterebbe? Gennaro Sangiuliano neo corrispondente Rai dalla Ville Lumière e biografo di Trump?Antonio Scurati che dopo la saga “M” recentemente conclusa si potrebbe buttare su una “G” in molteplici volumi (e anche podcast)? E poi c’è J.D. Vance, vice presidente Usa e scrittore in proprio (della famosa “Elegia americana”): è sbarcato a Roma: terrà un diario di viaggio? E andrà meglio qui che nella grottesca visita recente in Groenlandia, con lui e la moglie imbacuccati e praticamente sequestrati nella base militare?
Françoise Sagan, quella di “Bonjour tristesse”, era molto amica di Mitterrand e viaggiava spesso con lui, e a Mosca divenne grande fan di Gorbaciov, mentre a Bogotà svenne per l’altitudine. Nella capitale colombiana era invece console generale a fine Ottocento il golden boy della politica crispina, Carlo Dossi. L’autore delle “Note azzurre”, che Arbasino chiamava “il gin and tonic della letteratura italiana”, prestigioso lombardo oggi pubblicato Adelphi, in scia a una grande tradizione di diplomatici – scrittori (da Chateaubriand ambasciatore a Londra a Stendhal console a Civitavecchia, agli italiani Daniele Varé e al lampedusiano Boris Biancheri, fino all’attuale immortale di Francia Maurizio Serra). Negli anni Cinquanta a Los Angeles Groucho Marx frequentava invece il console francese, lo scrittore Romain Gary, e progettava di girare “Una notte a Casablanca”, ma i Warner Brothers gli fanno causa pensando che sia una parodia del loro “Casablanca”. Lui risponde: “credo che la gente sappia ancora distinguere tra Ingrid Bergman e Harpo Marx”. Ma nella vera Casablanca la leggendaria danzatrice Joséphine Baker, prima celebrità nera della storia, è arruolata dal controspionaggio francese, soprattutto esperta di informazioni riguardo l’Italia (entrerà in guerra o no?). In Marocco Baker arriverà con i suoi 28 bauli di bagaglio e un alano bianco, Bonzo. Pensa che servire la Francia sia il minimo, per quel paese “che ha fatto di lei quella che è, mettendo da parte tutti i pregiudizi”. Ma nel dopoguerra, in quanto nera, sarà respinta in tutti gli hotel di New York. Louis-Ferdinand Céline invece a Londra è di stanza all’ufficio visti del consolato di Francia: sbriga pratiche noiose, frequenta prostitute e magnaccia, ma un giorno concede un visto a una viaggiatrice d’eccezione: Mata Hari.