Quante volte il protezionismo ha causato recessioni e instabilità. Maschere del patriottismo
Un giorno il mondo si svegliò e scoprì che il dollaro non era più convertibile in oro, che alle importazioni negli Stati Uniti veniva applicato un dazio suppletivo. Era una domenica, il 15 agosto 1971. L’allora presidente, Nixon, era andato in tv ad annunciare le misure come assolutamente necessarie a creare nuovi posti di lavoro in America, fermare l’inflazione, stabilizzare le tempeste valutarie. La preoccupazione americana era ridurre il deficit commerciale. Ce l’avevano soprattutto con Germania e Giappone. “Tutti gli stranieri sono intenti a fotterci (screw us). E’ nostro dovere fotterli prima che siano loro a farlo”, era il modo in cui l’aveva messa l’allora segretario al Tesoro John Connally.
Nel ’71 Nixon annunciò misure assolutamente necessarie a creare nuovi posti di lavoro. Risultato: il termine “stagflation” fu coniato allora
Politicamente fu un successo per Nixon. Convinse il pubblico americano che li stava salvando dalle mene di una manica di speculatori internazionali e da una crisi tutta imposta dall’estero. Economicamente fu una catastrofe. I dazi, che non erano granché, del 10 per cento appena, durarono pochissimo. Li ritirarono già pochi mesi dopo, a dicembre. Ma il danno sarebbe durato per l’intero decennio: recessione, stagnazione, inflazione galoppante, tempeste valutarie a ripetizione. Esattamente tutto quello che dicevano di voler evitare. Gli economisti dovettero creare un concetto nuovo: stagflation, stagnazione più inflazione. Tra gli effetti indesiderati per l’America e il dollaro ci fu tra l’altro la decisione da parte degli europei di creare l’euro.
Tra i modi di darsi la zappa sui piedi, dazi, sanzioni, embarghi commerciali sono sempre stati uno dei più praticati. In America lo insegnano a scuola. O lo insegnavano, prima che Trump abolisse il dipartimento all’Istruzione. In un film comico americano degli anni ‘80, Ferris Bueller’s Day Off (Una pazza giornata di vacanza) l’insegnante spiega una delle più disastrose leggi americane di tutti tempi. Intercalando domande agli studenti per verificare quanto ne sappiano dell’argomento. “Nel 1930, nel tentativo di alleviare Anyone? Anyone? (Che cosa, chi di voi lo sa?)… la Grande depressione, venne approvata la legge detta Hawley-Smoot Tariff Act , che alzava o abbassava… Anyone? Anyone? … che alzava i dazi, nel tentativo di racimolare più entrate per il governo federale. Funzionò? Anyone? Non funzionò, gli Stati Uniti precipitarono ancora più nella depressione”. Le facce imbambolate degli studenti che mostrano di non avere la minima idea di che cosa si stia parlando sono la parte più esilarante.
Hoover firmò lo Smoot-Hawley Tariff Act contro il parere degli economisti. Fu asfaltato da Roosevelt alle elezioni, ma il danno era fatto
E’ detto Smoot-Hawley Tariff Act, dal nome dei due senatori del Mid-West che l’avevano improvvidamente proposto. Nessuno li ricorda più, se non per il guaio che avevano provocato. L’anno stesso Reed Smoot e Willis Hawley furono cacciati dagli elettori. Presidente era Herbert Hoover. Un altro passato alla storia con ignominia. Mille economisti lo avevano implorato di mettere il veto alla misura, perché non ne poteva venire nulla di buono. Ignorando il parere degli esperti, Hoover la firmò, per non scontentare l’ala ultrà del suo partito repubblicano. Alle presidenziali del 1932 fu asfaltato dal democratico Franklin Delano Roosevelt.
Ma guaio fatto capo ha. Prima ancora che i dazi entrassero in vigore, i partner commerciali avevano reagito con misure analoghe. Fu micidiale per l’America come per il resto del mondo. I dazi erano modesti, circa del 20 per cento. Ma contribuirono a prolungare la Grande depressione. Rinfocolarono la corsa di tutti contro tutti ad accaparrarsi materie prime e mercati. Seminarono politiche e deliri di potenza, fascismo e guerre. Lo storico di Princeton Harold James, autore di Seven Crashes: the Economic Crises that Shaped Globalization (Yale University Press 2023) sostiene ad esempio che quei dazi ebbero effetti devastanti per il Giappone, il quale giusto un anno dopo, nel settembre 1931, invase la Manciuria per appropriarsi delle sue risorse minerarie, e poi la Corea e la Cina. Era di fatto l’inizio della guerra mondiale.
Gli Stati Uniti non smisero mai di negoziare su dazi, prestiti, economia. Né con la Germania, anche dopo che era diventata nazista. Né con il Giappone. Erano negoziati interminabili. Si interruppero solo 30 minuti prima che, il 7 dicembre 1941, le portaerei giapponesi attaccassero la flotta che Washington aveva spostato a Pearl Harbor, nelle Hawaii, in mezzo al Pacifico. Ancora oggi si discute chi gliel’aveva fatto fare. Di rappresaglia commerciale in rappresaglia commerciale, avevano continuato a trattare per dieci anni. Washington chiedeva che il Giappone smettesse di fare la guerra in Cina. Il Giappone voleva uno status di grande potenza. A qualunque costo. Non importa se imposta con le baionette o con le buone. Si erano inventati il concetto di Grande area di prosperità dell’Asia orientale. Voleva dire egemonia sugli altri. Erano affamati di materie prime fondamentali, molecole base per il proprio sviluppo industriale. Soprattutto ferro e petrolio. Ma anche tungsteno, stagno, gomma e prodotti agricoli.
E’ opinione comune che siano stati la grande crisi del 1929 e la conseguente depressione, prima americana e poi mondiale, a scatenare la crescente aggressività militare e imperiale giapponese in Asia. Così come avrebbero giustificato la volontà di rivincita della Germania nazista. I dazi alle loro esportazioni li privavano delle risorse necessarie ad acquistarle e pagarle. L’embargo americano sulle materie prime, sui rottami per fare acciaio, e soprattutto il blocco totale delle esportazioni di petrolio messo in atto da Washington nel luglio 1941, li aveva portati alla conclusione che gli restavano solo un paio di anni di riserve e che solo una guerra preventiva contro la presenza americana nel Pacifico gli avrebbe consentito di evitare il collasso della propria economia.
Il Giappone aveva disperato bisogno di accedere ai campi petroliferi e alla gomma delle Indie olandesi, e di controllare le rotte marittime indispensabili a trasportare queste materie prime verso le isole del Sol levante. Ci fossero già stati i chip per computer e intelligenza artificiale, avrebbero fatto la guerra per i minerali indispensabili, le cosiddette terre rare.
Era venuta meno l’opzione, perseguita negli anni 20, di affermarsi come grande potenza commerciale e pacifica. Cosa niente affatto impossibile. Tanto che poi l’avrebbero fatta, sotto tutela dei vincitori Usa, una volta usciti da una guerra bestiale, conclusasi solo dopo lo sgancio di due atomiche. Era pura follia. A Tokyo tutti, anche i militari ultrà, sapevano benissimo che una guerra contro il gigante americano non avrebbero mai potuto vincerla e che, anche se fosse stato pieno il successo iniziale, sarebbe durata a lungo. A Pearl Harbor il giorno dell’attacco non avevano trovato le portaerei, l’obiettivo grosso. La cosa di cui non potevano dubitare è che l’America si sarebbe vendicata. A chi si congratulava con lui per il successo dall’attacco l’ammiraglio Yamamoto, che pure lo aveva concepito, pare avesse risposto: “Temo che tutto ciò che siamo riusciti a fare è l’aver svegliato un gigante che dormiva, e averlo riempito di una terribile determinazione”.
I dazi alle esportazioni privavano i giapponesi delle risorse necessarie ad acquistare e pagare le materie prime. Da lì si giunse a Pearl Harbor
A Tokyo ne avevano discusso a più riprese. In una serie di “Conferenze imperiali”. La cosa tragica è che sapevano benissimo che le probabilità di una vittoria militare nel Pacifico erano scarse. Specialmente la Marina non era affatto incline a provocare alla guerra gli Stati Uniti nel Pacifico. L’ammiraglio Oikawa sosteneva che sarebbe stato meglio consolidare lo sviluppo verso Nord, in Manciuria, piuttosto che avventurarsi verso Sud, dove sarebbe stato impossibile non scontrarsi con gli interessi dell’America e dei suoi alleati. “Non ci sarebbe alcun problema se potessimo procedere pacificamente in tutte le direzioni, ma quando le altre potenze innalzano alte barriere di dazi, e impediscono l’avanzata pacifica di altri Paesi, allora dobbiamo anche essere pronti e determinati a usare la forza in alcune aree per eliminare le barriere”, era il modo in cui l’aveva messa già nel 1936.
Secondo Dale C. Copeland, autore di un ponderoso studio su Economic Interdependence and War (Princeton University Press 2015), c’era ancora margine nel 1941 perché le cose andassero diversamente. La decisione di rischiare il tutto per tutto venne solo all’ultimo istante. Alla conferenza imperiale del settembre 1941 era stato presentato un piano congiunto dei militari e del governo per procedere a negoziati tesi a riparare i rapporti commerciali tra Giappone e Stati Uniti. L’imperatore Hirohito parlava poco o nulla a queste riunioni. Gli fu chiesto di approvare un documento in cui si diceva che il Giappone avrebbe fatto ogni sforzo diplomatico possibile per ripristinare gli scambi commerciali. Ma che, fossero questi falliti, al Giappone non restava altra scelta che iniziare immediatamente le ostilità. Hirohito aveva annuito con un gesto del capo.
Le cattive decisioni non vengono per caso. E non vengono da sole. Pesarono certamente le “affinità elettive” dell’imperialismo giapponese con i fascismi europei. Tokyo aveva appena firmato, nel settembre 1940, il Patto d’acciaio con la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini. Per prima cosa il Giappone si adeguò del tutto al modello e all’andazzo totalitario. I partiti in Parlamento si sciolsero in un unico raggruppamento patriottico. Sembrava che la guerra in Europa stesse andando bene per i nazifascisti. L’America era obbligata a tenere metà flotta nell’Atlantico. Roosevelt aveva contro un formidabile vento isolazionista nell’opinione pubblica e dalla destra americana, all’insegna del “non saremo noi a cavare le castagne dal fuoco per gli europei, che se la cavino da soli”. Non li chiamarono “parassiti”, non diedero a Churchill dell’antidemocratico, del dittatore, dell’aggressore anziché dell’aggredito. Ma poco ci mancava.
Quasi nessuno ha ben capito cosa vuole ottenere Trump con i suoi dazi. Far pagare ai partner commerciali le riduzioni fiscali che ha promesso ai suoi elettori? O fargliele pagare in altro modo ai consumatori americani, favorendo i ricchi? Far cassa e basta, come suggerirebbe il modo ossessivo in cui continua a vantare miliardi su miliardi di entrate aggiuntive che sarebbero dovute ai dazi? Convincere gli amici europei che dovrebbero essere un po’ meno amichevoli con la Cina? Bel modo davvero! Ti prendo a bastonate per convincerti che sono l’unico amico tuo, e non avrai altri amici al di fuori di me. C’è chi crede davvero che possa funzionare? Riequilibrare la bilancia commerciale, invitare tutti a trasferire le fabbriche in America, come vanno ripetendo un giorno sì e uno no? Sarebbe già un grande passo avanti se si capisse cosa vuole davvero.
Oppure si tratta della solita vecchia politica di potenza per cui il Paese che aspira all’egemonia pensa di poter imporre agli altri, ai più deboli, scelte economiche che questi ritengono contro il proprio interesse? Un economista italiano, ebreo, costretto all’esilio causa le leggi razziali, aveva intuito già negli anni 30 il potenziale distruttivo dei protezionismi commerciali. In uno studio pubblicato in America solo nel 1945, aveva rigorosamente analizzato e quantificato l’uso del commercio estero come strumento di potenza nazionale. Sarà inevitabilmente lotta per acquisire maggior potere nazionale nella misura in cui uno stato può a suo arbitrio interrompere – con dazi, con guerre o altro – “il proprio commercio di importazione ed esportazione, che al tempo stesso rappresenta il commercio di importazione ed esportazione di un altro paese”.
Si chiamava Albert O. (per Otto) Hirschman. Nel momento in cui scriveva, era preoccupato dalla penetrazione della Germania nazista in Europa. Potenza nazionale e commercio estero, il titolo della traduzione italiana che uscì per il Mulino nel 1987. Otto era fratello di Ursula Hirschman, la moglie di Eugenio Colorni, ideatore, assieme ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, del Manifesto di Ventotene. Fu Ursula a far uscire dall’isola dei confinati il manoscritto. L’idea di un’Europa democratica, unita, senza più guerre, dazi e pretese di egemonia hard o soft, poteva sembrare da pazzi nei giorni in cui le armate tedesche arrivavano in vista di Mosca e il Giappone si lanciava nell’avventura a Pearl Harbor. Dementi erano invece gli altri.
Il sogno del segretario al Commercio di Trump, Howard Lutnick, è un’armata di americani “che avvitano vitine per fare gli iPhone”
Il sogno dichiarato del segretario al commercio di Trump, Howard Lutnick, è che “l’armata di milioni e milioni di esseri umani che avvitano vitine per fare gli iPhone verrà in America”. Di Lutnick, il suo compagno di squadra di governo Elon Musk ha detto che “ha un quoziente di intelligenza pari a quello di un sacco di mattoni”. Il fattore idiozia non è mai da sottovalutare. Il Wall Street Journal, che non è proprio di sinistra, ha condotto un’inchiesta molto dettagliata su da dove vengano le diverse componenti degli IPhone di Apple. Da 40 diversi Paesi. Le parti più complesse da Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone. Altro che armate di omini col cacciavitino! Nessuno può fare da solo. Gli Stati Uniti controllano il 96 per cento del design e del software. Taiwan ha quasi il monopolio dei chip avanzati. Quelli di prossima generazione per l’intelligenza artificiale li fanno solo lì. Non sono in grado al momento di farli né in America e neppure in Cina. Ma li fanno con macchinari che si fanno solo in Olanda. I supporti ultrasottili al silicio li fanno in Giappone. Mentre la Cina dispone del 90 per cento delle risorse di minerali e magneti indispensabili.
Ammesso e non concesso che gli Stati Uniti abbiano la capacità di mettere insieme, oltre ai robot, le squadre di ingegneri e tecnici adatti alla bisogna, la stima è che prima che inizino le operazioni di assemblaggio dei telefonini in America ci vorrebbero da tre a cinque anni. E intanto i consumatori americani dovrebbero pagarlo il doppio, causa i dazi americani, gli IPhone Apple? Roba da rivolta coi forconi. Tant’è che tra le prime retromarce di Trump c’è stata l’esenzione dei dazi appunto per cellulari, computer, altra componentistica elettronica.
C’era stato un sospiro di sollievo immediato quando Trump aveva annunciato 90 giorni di grazia per i dazi all’Europa. I mercati sono ripiombati nella disperazione quando li ha raddoppiati per la Cina. Giù di nuovo quando Trump insiste che saranno tassati i chip e proibisce a Nvidia la vendita a Pechino di quelli avanzati. Su quando dice che si arriverà a un accordo con l’Europa. Giù quando dice che di tassi zero reciproci neanche se ne parla. Giù di nuovo, a precipizio, quando il governatore della Federal reserve dice che con i dazi l’America rischia inflazione e recessione. Giù di nuovo quando Trump risponde che andrebbe licenziato (cosa che, checché ne dica, non può fare prima che scada il mandato di Jay Powell, nel 2028). Giù, e ancora giù, ogni volta che Trump dice che tutto sta andando benissimo, che meglio di così non si può. E’ come se lo facessero apposta, per accrescere l’incertezza e il nervosismo sui mercati. Insomma per tirarci scemi.